Wonder - Il mondo del lavoro e l'inclusione delle persone con disabilità Wonder - Il mondo del lavoro e l'inclusione delle persone con disabilità

Wonder – Il mondo del lavoro e l’inclusione delle persone con disabilità

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Il mondo del lavoro e l’inclusione delle persone con disabilità

Il lavoro è un argomento essenziale da affrontare quando si parla e si scrive di disabilità, perché per le persone disabili – di cui io faccio parte – non è assolutamente certo che esso si svolga nel rispetto delle pratiche di inclusione e con i supporti necessari. I dati ci mostrano che l’Unione Europea ospita 87 milioni di persone con menomazioni e il tasso di disoccupazione a loro riferito è maggiore: la Lituania, secondo i dati del 2022 rilevati dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL), è il primo Paese in tutta Europa per persone disabili disoccupate. L’Italia, invece, è al settimo posto con l’11% della comunità disabile senza lavoro. In generale il 21% di persone disabili si trova in condizioni di maggiore povertà o esclusione sociale, contro il 14,8% dei soggetti senza disabilità. Ad esempio, in Lituania il divario risulta al 17%, mentre in Bulgaria, Italia e Portogallo si registrano situazioni lievemente migliori. Il gap tra la domanda e l’offerta di lavoro rimane molto alto, tanto che le istituzioni hanno incluso dal 2021 al 2030 una serie di obiettivi all’interno di un piano strategico più ampio per garantire i diritti delle persone con disabilità e dar loro un lavoro degno. L’OIL definisce “degno” un lavoro quando è contraddistinto da: presenza di opportunità, libertà di scelta dell’impiego, salario minimo, sicurezza sul posto di lavoro e trattamento rispettoso, senza alcun tipo di discriminazione.

Riportando i risultati del mio questionario anonimo “Lavoro e disabilità” somministrato a un campione di sei persone, si apprende che solo due lavorano o hanno lavorato. La restante parte dei partecipanti, al contrario, è disoccupata da sempre. Tuttavia, anche i soggetti esaminati che hanno lavorato dichiarano di faticare a trovare una nuova mansione poiché la concorrenza è aumentata a causa della diminuzione delle offerte dopo la pandemia e, ə datorə di lavoro che sono disponibili ad assumere, nelle circostanze peggiori non si degnano nemmeno di rispondere alle candidature in categoria protetta; oppure scartano le stesse seppur nei curricula siano presenti ottime esperienze in ambito socio-economico. Forse perché alcuni posti di lavoro presentano barriere architettoniche all’ingresso e/o all’interno dell’edificio e chi dovrebbe assumere non vuole sostenere spese non necessarie [secondo loro, ndr]? È soltanto una mia congettura, ma anch’io – lo accennavo inizialmente – sto subendo discriminazioni lavorative pesanti ed evidenti. Pertanto voglio rendere pubblica, nero su bianco, la mia storia.

Ero in terza media, al termine dell’anno scolastico l’insegnante mi consigliò di intraprendere gli studi linguistici. A me sembrò una buona idea perché mi piacevano le lingue straniere e, inoltre, ero notevolmente brava ad apprendere nuove forme di comunicazione. Conclusa la scuola media, durante l’estate, un giorno stavo per iscrivermi a un liceo linguistico di buon livello, quando i miei genitori mi fecero una domanda piuttosto chiara e sensata se adesso ci ripenso: “Questo liceo, alla fine del percorso, non ti darà un diploma vero e proprio, ma esclusivamente un attestato dichiarante il fatto che tu potrai lavorare. Sei sicura di voler procedere?”

Con esattezza avevo 15 anni, di conseguenza non avevo ancora la consapevolezza di cosa fosse un diploma e quali caratteristiche lo differenziassero dal certificato di competenze. In realtà, è semplice: il diploma dà la possibilità di accedere all’Università, però con l’attestato di competenze non si può. Esso ufficializza che si è prontə per lavorare, ma in possesso di questo documento non si ha diritto a un iter universitario.

Tornando a me, non giudicatemi se all’epoca la mia risposta fu: “Sì, sono sicura.”

Volevo immediatamente inseguire il mio sogno di trasferirmi a Londra e diventare un’interprete – ripeto, non avevo idea di quanto valore avrebbe avuto un diploma per il mio futuro. Dunque, fu quel consenso a pregiudicare quello che ritenevo il mio promettente orizzonte lavorativo. In terza superiore cominciai ad annoiarmi nello studio e a non dedicarmici più, benché continuassi ad avere buoni voti. Insomma, era come se inconsciamente avessi già compreso che le lingue straniere non fossero davvero la strada alla quale ambivo, ma credevo fosse soltanto uno dei classici periodi in cui ə adolescenti si imbattono.

Una mattina fui invitata a passare un paio di ore con i miei compagni di classe e ricordo che, in quell’occasione, chiesi ai professori se in qualche modo sarebbe stato possibile ricevere il diploma. La loro obiezione fu sconcertante: mi dissero che avrebbero potuto consegnarmelo solo se, una volta finito il liceo, avessi frequentato l’istituto ancora per ulteriori cinque anni, poiché la quantità di ore concordata effettuando il PEI (Piano Educativo Individualizzato) non era sufficiente per assegnarmi un documento ufficiale. Come se non bastasse, aggiunsero che io non possedevo doti linguistiche richieste in quanto la muscolatura della mia lingua e quella mandibolare non mi permettono di articolare le parole, perciò, in base alla legge dell’istruzione, non sarei mai stata idonea. Fu il mio istinto a impedirmi di cadere nella trappola delle discriminazioni. Quindi, completati i canonici cinque anni, non proseguii a farne altri. Ero una persona come tutte le altre che in cinque anni di liceo può imparare vari idiomi, nonostante la mia mancata articolazione di espressioni verbali. Quale sarebbe stata la differenza tra me e gli alunni della scuola? Nessuna. Non sono stata a quel gioco insensato.

Dagli esami di Maturità del 2020 uscii con il voto più alto, 100/100, poi mi creai un curriculum e, pensando fosse semplice ricevere una risposta da parte deə datorə di lavoro, lo inviai alle redazioni giornalistiche che cercavano personale sui siti web degli annunci. La prima azienda che mi contattò sparì improvvisamente. La seconda era appena stata fondata ma mi disse che con loro avrei guadagnato denaro solo se ogni mio articolo avesse raggiunto un tot di lettorə – e capite che, per chi desidera un lavoro a lungo termine con uno stipendio fisso e decente, non è il massimo. Da lì, non ho avuto altri contatti.

Al momento collaboro gratuitamente con diverse associazioni di persone disabili scrivendo articoli su loro commissione e ciò mi regala la possibilità di imparare. Il punto è che vorrei smettere di dipendere economicamente da mia mamma, quindi sto ancora cercando un’attività retribuita e un metodo per ottenere il diploma senza dover frequentare tutti quegli anni, così da potermi iscrivere all’Università e realizzare il mio vero desiderio: essere una giornalista a tutti gli effetti. Sono vicina al traguardo, però mi suscita uno stress incredibile inventare scorciatoie per arrivare all’obiettivo finale, perché di simili problemi ognunə ne è vittima – persone disabili e non – ma per noi che apparteniamo alla prima categoria le difficoltà e le vicissitudini pesano ancora di più, perché a tutto si sommano anche i pregiudizi nei nostri confronti.

“Pregiudizi“, è proprio questa parola di dieci lettere – a mio parere – il motore di molti dei mali che viviamo quotidianamente, anche nella sfera lavorativa. Oggi abbiamo affrontato un tema importante: il mondo del lavoro. Ebbene, uno dei lavori che amo fare maggiormente è divulgare e fare attivismo, prima di tutto per la disabilità e poi per tutte le altre minoranze, allo scopo di decostruire proprio ciò che questa parola di dieci lettere indica. Scriverò una lista di dieci pregiudizi, come dieci sono le lettere che compongono la parola stessa:

P: quei pregiudizi che ogni giorno ci dipingono per ciò che non siamo;
R: quei pregiudizi che ci fanno apparire nelle vesti di alieni, esseri troppo intelligenti, melensi o infantili;

E: quei pregiudizi per cui veniamo discriminatə, regelatə in un angolino e nessunə vuole stare con noi;

G: quei pregiudizi per cui veniamo etichettatə come esseri candidi e creature angeliche;

I: quei pregiudizi che ci fanno sembrare, agli occhi degli altri, esseri per cui provare pietà, compassione e tristezza;

U: quei pregiudizi che alle nostre orecchie fanno sentire espressioni campate in aria, per esempio: “Oh poverino”;

D: quei pregiudizi per cui quando facciamo qualcosa di importante veniamo spesso emulatə come fossimo supereroi dai quali trarre ispirazione e forza;

I: quei pregiudizi per cui alcuni medici si rifiutano di curarci o non lo fanno con la consueta dedizione, perché tanto “siamo persone disabili e il gioco non vale la candela, la nostra vita vale poco ed è inutile spendere tempo e soldi per medicarci in maniera adeguata”;

Z: quei pregiudizi per cui alcunə giornalistə di testate famose, ancora oggi, equiparano la disabilità all’insulto utilizzando un linguaggio scorretto e non inclusivo;

I: quei pregiudizi che tentano di toglierci l’ossigeno ogni giorno, ma tanto non ci riusciranno mai, perché la potenza che ha la buona informazione è inarrestabile e incontenibile.

Tuttə siamo vittime dei pregiudizi, in un modo o nell’altro corriamo il rischio di inciampare in stereotipi e preconcetti errati. Io stessa, che mi sono posta l’obiettivo di smontarli, potrei incappare in questo. Ecco perché, oltre all’informazione, un’altra arma potente e utile per combattere le false credenze è riflettere. Ogniqualvolta diamo per scontato qualcosa su una minoranza – e non solo – poniamoci delle domande e cerchiamo di capire se la nostra convinzione sia motivata oppure no. Analizziamo bene noi stessə, interfacciamoci con ə direttə interessatə e impariamo a metterci in discussione; decostruiamo e sconfiggiamo le idee sbagliate per far nascere un mondo nuovo e degno, dove ognunə abbia pari dignità e diritto di esistere ed essere una tesserina minuscola ma fondamentale per comporre l’enorme puzzle sfolgorante e luminescente, che chiamiamo “diversità”.

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Un commento

  1. La crescita personale deell’autrice si riflette in questa appassionata e profonda riflessione utile per una maggiore consapevolezza della condizione di disabilità e sul valore della diversità.

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