Teatro della Pergola - Michele Placido è Don Marzio ne "La bottega del caffè" di Goldoni diretta da Paolo Valerio Teatro della Pergola - Michele Placido è Don Marzio ne "La bottega del caffè" di Goldoni diretta da Paolo Valerio
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Teatro della Pergola – Michele Placido è Don Marzio ne “La bottega del caffè” di Goldoni diretta da Paolo Valerio

Teatro della Pergola - Michele Placido è Don Marzio ne "La bottega del caffè" di Goldoni diretta da Paolo Valerio Teatro della Pergola - Michele Placido è Don Marzio ne "La bottega del caffè" di Goldoni diretta da Paolo Valerio Al Teatro Era di Pontedera, il 28 e 29 gennaio, e poi al Teatro della Pergola di Firenze, dal 31 gennaio al 5 febbraio, Michele Placido è Don Marzio, protagonista de La bottega del caffè di Carlo Goldoni firmata dal regista Paolo Valerio. La produzione è di Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, Goldenart Production, Teatro della Toscana.

 

Don Marzio è il nobile napoletano che osserva seduto a un caffè il piccolo mondo di un campiello veneziano e con malizia ne intriga i destini. Lo attorniano figure tutte importanti, ognuna ambigua e interessante: una coralità in cui la pièce trova il fulcro del suo impeccabile meccanismo comico, che imprime ritmi vorticosi alle interazioni fra i personaggi.

 

«Accogliamo appieno e portiamo sulla scena – afferma Paolo Valerio – tutta la vitalità e il divertimento della commedia, la comprensione che Goldoni mostra per l’uomo, di cui ritrae con sottigliezza le virtù e i lati oscuri, il suo amore viscerale per il teatro, per la scrittura, per gli attori, sulle cui potenzialità costruiva personaggi universali.»

 

Cosa succede? Nulla di clamoroso: qualcuno si rovina al gioco, due amanti si ritrovano e si perdonano, qualche sogno s’infrange, ma soprattutto si spettegola. È Venezia, come dice Don Marzio, “un paese in cui tutti vivono bene, tutti godono la libertà, la pace, il divertimento.”

 

La bottega del caffè è la più famosa delle “sedici commedie nuove” scritte nel 1750 da Carlo Goldoni. Nell’edizione firmata da Paolo Valerio, al Teatro Era di Pontedera il 28 e 29 gennaio, e poi al Teatro della Pergola di Firenze dal 31 gennaio al 5 febbraio, Michele Placido, carismatico protagonista del mondo dello spettacolo italiano, è l’interprete di Don Marzio, personaggio a cui Goldoni assicura una decisa e intrigante centralità. «Un chiacchierone maldicente, molto originale e comico – lo descrive nei suoi Mémoires – è uno di quei flagelli dell’umanità che preoccupa tutti quanti, infastidisce i frequentatori abituali del caffè». E a proposito del suo carattere aggiunge un aneddoto: «Quello del maldicente era applicabile a molte persone conosciute. Una di esse se la prese con me; fui minacciato, si parlava di spade, coltelli, pistole; ma, curiosi, forse, di vedere sedici commedie nuove in un anno, mi concessero il tempo di terminarle».

Michele Placido regala al personaggio di Don Marzio ambiguità e ironia, ed è attorniato da una compagnia d’interpreti che si muovono in scena con la forza di personaggi espressivi e ispirati: Luca Altavilla, Emanuele Fortunati, Ester Galazzi, Anna Gargano, Armando Granato, Vito Lopriore, Francesco Migliaccio, Michelangelo Placido, Maria Grazia Plos. Un microcosmo, un affresco sociale e umano sottolineato dalla scenografia di Marta Crisolini Malatesta, i costumi di Stefano Nicolao, le luci di Gigi Saccomandi, le musiche di Antonio Di Pofi e i movimenti di scena curati da Monica Codena. Una commedia moderna e complessa, ricca di ironie e acutezze, che unisce una sapiente scrittura drammaturgica corale all’italiano settecentesco parlato.

Quando il sipario si alza, la luce del mattino accarezza le piccole abitazioni che si affacciano su un campiello veneziano, mentre i riflessi dell’acqua si rifrangono sul piccolo mondo che lo popola e che lo spettatore seguirà per una giornata intera, durante il carnevale. È stesso Goldoni a descriverci, sempre nei suoi Mémoires, il luogo della scena: «È una piazzetta nella città di Venezia. Di fronte vi sono tre botteghe: quella in mezzo è un caffè, quella a destra è occupata da un parrucchiere e l’altra a sinistra da un biscazziere. Da una parte vi è, fra due calli, una casetta, abitata da una ballerina, dall’altra, una locanda».

Dunque, lo sfaccettato affresco sociale e umano ritratto da Goldoni è in costante movimento attorno alla bottega del titolo, gestita con oculatezza da Ridolfo con il suo aiutante Trappola. Sullo stesso campiello si affaccia, però, anche un luogo assai meno onorato: la casa da gioco di Pandolfo. La bisca calamita il giovane mercante Eugenio, vittima della dipendenza dal gioco: perde, s’indebita, impegna i gioielli della moglie. La giovane Vittoria, di buona famiglia e sentimenti sinceri, molto deve penare – sostenuta da Ridolfo – per tentare di riportarlo sulla retta via. Anche il conte Leandro ama il gioco e la fortuna gli sorride (o lo aiutano carte truccate?) e ha fortuna anche in amore, giacché la bella ballerina Lisaura si lascia corteggiare da lui, sperando di cambiar vita sposandolo. Ma una pellegrina – Placida – appena giunta a Venezia lo riconoscerà e l’aitante conte si rivelerà un marito fedifrago, nient’affatto nobile e presto pentito.

Di tutto questo rincorrersi e mentire, di questo tessere affari, di queste agnizioni, pentimenti e colpi di scena, è osservatore privilegiato proprio Don Marzio: il nobile napoletano che seduto al caffè ascolta, rivela, distorce notizie e verità.

«Don Marzio guarda e spia, con un occhialetto che non corrisponde alle diottrie che gli mancano, e registra il tempo con un orologio che non funziona, offrendo in caricatura una posizione speculare a quella del pubblico che osserva – scrive Piermario Vescovo in Goldoni e il Teatro comico del Settecento – soccombendo a quanto la sua lingua pettegola ha incautamente spiattellato. A conclusione della commedia – continua – Don Marzio finisce con l’assumere il ruolo del bugiardo, avendo egli in realtà rivelato la verità attraverso un’osservazione deformata della realtà e attraverso la pratica di una maldicenza quasi ingenua.»

Diviene, dunque, un capro espiatorio, estromesso dalla società veneziana, che intanto, però, ha mostrato, assieme alle sue virtù, numerosi lati bui.

Sono partito da un’immagine, un’ispirazione sollecitata da un testo di Georges Perec, La vita: istruzioni per l’uso. Lo scrittore francese immagina di poter “aprire” la facciata di un palazzo parigino e di osservare e raccontare le vite che scorrono nei diversi appartamenti. Immaginando di traslarla al microcosmo posto al centro de La bottega del caffé, quest’immagine diviene prima paesaggio architettonico, poi interiore, poi universale…

Lo spunto ha influenzato in particolare il progetto scenografico, la creazione del luogo fisico, in cui assieme agli attori mettiamo in scena e raccontiamo “l’irresistibile fascino del pettegolezzo” che anima questo capolavoro di Carlo Goldoni.

È un campiello veneziano, non particolarmente aristocratico – lo collocherei nel sestiere di Cannaregio piuttosto che a San Marco – e lì, fra una casa da gioco e una bottega di caffé, si muove una moltitudine di personaggi assieme a un grande protagonista, Don Marzio. Ma – e in questo si riconosce, a mio avviso, la grande qualità della commedia – ognuno di loro possiede, nel disegno di Goldoni, una qualità straordinaria: l’autore riesce a tratteggiare ogni figura attraverso sfumature e intrecci che alla fine le rivelano. Ecco allora che all’immagine iniziale si è aggiunta la riflessione suggerita da un saggio di Guido Davico Bonino, dove si legge “tradurre nel minimo spazio scenico il massimo della socialità”: è questo il nostro campiello, il nostro microcosmo.

Vi seguiamo le vicende di ognuno dei personaggi, e tutte conducono a Don Marzio, che si rivelerà la chiave della commedia, un personaggio ambiguo e alla fine catartico. Ho avuto la fortuna di collaborare con un assieme di professionisti molto stimolanti, a partire dai coproduttori, che ringrazio: la privata Goldenart Production e Marco Giorgetti direttore generale della Fondazione Teatro della Toscana, che con sensibilità hanno abbracciato il progetto. E poi gli attori della Compagnia del Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia – che conosco ormai da diverso tempo – i giovani interpreti che hanno lavorato con i coproduttori della Goldenart e soprattutto, nel ruolo di Don Marzio, Michele Placido, che in queste fasi di lavoro è stato un maestro e un “capocomico” generoso, ha rivelato grande creatività, intensità e intelligenza rispetto a un personaggio che se, da un lato, può essergli affine, dall’altro, ogni sera ci riserva sorprese nuove.

È racchiuso in Don Marzio il misterioso fascino di questo testo, spesso riletto in chiave contemporanea, che ha conquistato autori come Fassbinder, e che anche in questa nostra edizione aggancia senza fatica, senza necessità di sottolineature, l’attualità delle “fake news” quando le chiacchiere del campiello si trasformano in accuse feroci, o un certo gusto per il voyeurismo, se si invita il pubblico a intrufolare lo sguardo all’interno di camerini e abitazioni dei personaggi.

Il personaggio di Don Marzio di queste curiosità, di queste distorsioni del vero, è il principe: seduto al caffè, osserva e intriga nelle vite degli abitanti del campiello, da cui volutamente si distacca con l’uso di un linguaggio crudo, brutale, divertente, ma politicamente scorretto (soprattutto nel rapporto con l’universo femminile), e autoinvestendosi di una sorta di superiorità (è nobile, viene da Napoli…). Una estraneità che pagherà cara: lo rende alla fine “il diverso”, il “capro espiatorio” da emarginare. Ma la sua uscita di scena rivela le ambiguità e i lati oscuri di ogni componente della piccola società del campiello, assicurando al “lieto fine” un sapore amaro e alla commedia una dimensione misteriosa e molto affascinante da indagare.

Nel perfetto meccanismo drammaturgico de La bottega del caffè, nella sua incantevole leggerezza, tante sono le tracce di questo lato d’ombra: basti pensare alle molte battute banali fra i personaggi (“che bella giornata… “pioverà”…), un linguaggio esteriore che cela situazioni destinate a degenerare e caratteri solo apparentemente limpidi.

Ho voluto alludere a questo mondo sotterraneo richiamando il carnevale, a cui la commedia rimanda, attraverso alcuni momenti in cui gli attori si muovono in scena indossando delle bautte bianche. Maschere che servono a festeggiare, ma anche a celare sentimenti e intenzioni: assieme all’aspetto in parte “scheletrico” della scenografia, segnano da un lato un legame con il mondo goldoniano e, al contempo, una frattura, un possibile uso simbolico e “altro” degli elementi della tradizione.

Fondamentali nella lunga progettazione dello spettacolo sono stati gli apporti di preziosi compagni di viaggio: la scenografa Marta Crisolini Malatesta, il costumista Stefano Nicolao, Gigi Saccomandi che ha concepito le luci, Antonio Di Pofi per le musiche e Monica Codena per i movimenti di scena.

Paolo Valerio

TEATRO ERA

Parco Jerzy Grotowski – Via Indipendenza – Pontedera

Per informazioni

0587 55720/57034 – www.teatroera.it

 

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