Stasera in tv torna l’appuntamento con Passato e Presente
Juan Peron presidente
E’ il 4 giugno 1943. Mentre in Europa le sorti della guerra stanno per cambiare a favore degli alleati, in Argentina un colpo di stato rovescia il governo conservatore e pone alla guida del paese il generale Fàrrell. La personalità più in vista del nuovo governo, però, è il colonnello Juan Domingo Peron, ministro del lavoro, che conquista il consenso delle masse diseredate con misure che ne migliorano le condizioni di lavoro e di vita. Il 24 febbraio 1946, Peròn stravince le elezioni e diventa il nuovo presidente dell’Argentina. A “Passato e Presente”, in onda domenica 25 febbraio alle 20.30 su Rai Storia, Paolo Mieli e il professor Raffaele Nocera raccontano la sua storia. Insieme alla popolarissima moglie Evita, che morirà prematuramente nel 1951, impone una politica di riforme che, grazie alla congiuntura economica mondiale, regala al paese un periodo di prosperità. Venerato dalle masse popolari e odiato dall’oligarchia, Peròn viene a sua volta deposto da un golpe militare il 19 settembre 1955, mentre l’ombra della crisi si allunga sull’Argentina. Una nave della Marina lo trasferisce in Uruguay, prima tappa di un esilio che durerà diciotto anni.
I seguaci di Perón — originariamente chiamati descamisados, «scamiciati» ad indicare simbolicamente la provenienza dagli strati popolari della società — acclamavano i suoi sforzi per eliminare la povertà e dare maggior dignità al lavoro, mentre i suoi oppositori politici lo hanno considerato un demagogo e un dittatore. Diede vita al movimento politico conosciuto come peronismo o giustizialismo (justicialismo) che si proponeva come una terza via fra il capitalismo e il socialismo.
Perón costruì la sua immagine anche grazie all’aiuto della seconda moglie, Evita. Il movimento peronista fu sincretico, talora definito populista unendo il socialismo, il patriottismo e la terza via economica, con alcune somiglianze col fascismo (sebbene Perón non abbia mai dichiarato affinità in tal senso) senza rinnegare, retoricamente, la democrazia.