Verso la fine del 1919, in una delle tante serate passate al Caffè Casoni, il conte Camillo Negroni chiese al suo amico barman di aggiungere del gin alla miscela di Vermouth e Bitter Campari che era solito bere, suscitando la curiosità dei presenti che da allora cominciarono anche loro a ordinare “l’Americano” alla maniera del conte Negroni. Da questo a chiamarlo semplicemente “Negroni” il passo fu breve. Una storia raccontata da “Looking for Negroni” di Federico Micali in onda sabato 6 aprile alle 22.30 su Rai Storia per il ciclo “Documentari d’autore”.
A Firenze agli inizi del Novecento c’erano molti caffè letterari ma il cocktail italiano più famoso nel mondo nacque nel caffè meno letterario di tutti, a riprova che in Italia letteratura e alcol non si miscelano bene. Il letterato italiano medio in fondo è un morigerato, un signore che tiene famiglia, non dedito all’autodistruzione e non incline all’ubriachezza in stile Hemingway e Fitzgerald. Più di rado è un bevitore ma in tal caso è spesso uno spiantato e non si può permettere liquori raffinati. Quindi il Negroni poteva nascere solo al Caffè Casoni di via Tornabuoni, dove al massimo capitava Ugo Ojetti. L’aristocratico Doney, sempre in Tornabuoni, era frequentato da D’Annunzio, notoriamente quasi astemio. Al Gilli di piazza della Repubblica (allora piazza Vittorio Emanuele) per anni si tennero le riunioni di redazione della Voce , e Prezzolini che detestava i beoni si concedeva tutt’al più un marsala. Al superletterario Giubbe Rosse, lì di fronte, erano soliti sedersi Papini e Rosai, poveri, e Dino Campana, poverissimo, cattivi clienti capaci di occupare un tavolo per ore ordinando solo un cappuccino, per giunta facendoselo mettere sul conto, altro che cocktail.
Il Negroni poteva nascere solo al Caffè Casoni e la sua storia poteva essere raccontata solo da Luca Picchi, capobarman del Rivoire.