Recensione: “La corsa degli animali” – la bellezza delle cose senza senso
“Una volta il leone, l’elefante, la giraffa, il cervo, lo struzzo, l’alce, il cavallo selvatico e il cane si misero a discutere su chi fra loro corresse più veloce di tutti. Discuterono e discuterono e per poco non vennero alle zampe. […] «Ehi, voi, sciocchi animali! Invano discutete! Fareste meglio ad organizzare una gara. Chi per primo completerà un giro intorno al lago, sarà il più veloce di tutti».”
Ha così inzio La (folle) corsa degli animali, che pagina dopo pagina ci travolge in una paradossale gara senza capo nè coda. Non c’è nemmeno la “morale della favola”, ma solo un umorismo coinvolgente e senza freni. Una fantasia spinta al limite dell’assurdo, la fantasia dei bimbi, dei matti, dei poeti.
La stessa fantasia e libertà espressiva la troviamo nelle tavole che illustrano la storia. Realizzate da un artista giovanissimo, Jean Mallard, scandiscono il testo con colori che si contrappongono disponendosi nei contorni di forme riconoscibili seppur libere dai canoni. Così abbiamo l’idea della scimmia, la sensazione dell’elefante, la percezione del leone, il sentore dello struzzo. Una comunicazione raffinata, quasi tradotta in geroglifici dai colori brillanti.
Autore della storia invece è Daniil Charms nato a Pietroburgo nel 1905. Nota la sua avversione per i bambini, testimoniata da chi lo conobbe. Considerato che Charms fu soprattutto uno scrittore per bambini, la cosa è davvero quanto meno sorprendente.
Parlare di Daniil Charms è quasi impossibile. Egli appartiene a quella costellazione di scrittori messi al bando e incompresi. A partire dalla fine degli anni venti i suoi versi anti-razionalistici, le sue ideazioni teatrali non conformiste e i suoi comportamenti pubblici inneggianti al decadentismo e alla illogicità, gli fecero guadagnare all’interno dei circoli artistici e culturali di Leningrado la fama di un eccentrico, geniale ma folle.
Era un poeta, un poeta in ogni sua cellula. Ma in un periodo in cui l’Urss era nelle mani di Stalin, Charms oltrepassò il limite, i suoi scritti incredibili erano troppo diversi da qualsiasi altra cosa per non risultare sospetti allo stalinismo.
Arrestato per la seconda volta il 23 agosto 1941, fu internato, morì di stenti il 2 febbraio 1942 nella clinica psichiatrica detentiva nel carcere di Leningrado.
Morì perchè faceva troppo ridere?
La sua vita rasenta il paradosso, tanto da sembrare scritta da lui stesso, amante dei paradossi. In questa breve storia, edita da Carmelozampa, racconta di una folle corsa verso il nulla, una corsa durante la quale si cede volentieri ai propri vizi, alle proprie debolezze, ai propri eccessi.
“E l’elefante non faceva altro che fermarsi e ridere, si fermava e rideva!
E il cane non faceva altro che sedersi e grattarsi, si sedeva e si grattava!”
Che fine hanno fatto la lepre e la tartaruga, moraleggianti e istruttive della favola di Esopo? Quale evoluzione involutiva hanno subito? Sembra proprio in questa storia che non si possa mai arrivare da nessuna parte, non importa quale sia la potenza iniziale o quanto velocemente ci si muova.
Sembra di essere alle prese con il paradosso di Zenone, dove è messo in campo il Pelide Achille (il Pie’ Veloce) in competizione con una tartaruga che non riuscirà mai a raggiungere.
La poesia dei gesti inutili, la bellezza delle cose senza senso, la comicità dell’assurdo.
Come concludere una storia senza capo, senza coda, senza morale?
L’unica via è prendere in prestito un epilogo da uno scritto dell’autore stesso: “Meglio allora non parlarne più“. Ai miei occhi una chiusura perfetta, ineccepibile e inconfutabile nella sua assurda evidenza. E i bambini, si sa, adorano l’assurdo.
«C’era un uomo con i capelli rossi, che non aveva né occhi né orecchie. Non aveva neppure i capelli, per cui dicevano che aveva i capelli rossi tanto per dire. Non poteva parlare, perché non aveva la bocca. Non aveva neanche il naso. Non aveva addirittura né braccia né gambe. Non aveva neanche la pancia, non aveva la schiena, non aveva la spina dorsale, non aveva le interiora. Non aveva niente! Per cui non si capisce di chi si stia parlando. Meglio allora non parlarne più.»