Recensione: "Vite maledette" la bellezza delle anime perdute Recensione: "Vite maledette" la bellezza delle anime perdute
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Recensione: “Vite maledette” la bellezza delle anime perdute

Recensione: "Vite maledette" la bellezza delle anime perdute Recensione: "Vite maledette" la bellezza delle anime perduteVito Molinari, regista televisivo e teatrale di grande fama, con il suo libro Vite Maledette, edito da Gammarò, rende omaggio a cinque grandi nomi dell’arte italiana.
I protagonisti appartengono a cinque epoche diverse e sono autori di autentici capolavori di musica e pittura.

Nel libro questi artisti si raccontano post mortem come fantasmi che dall’esterno guardano ai drammi della propria vita e agli impulsi che li hanno indotti a creare le loro opere, quasi a voler riscrivere la propria vita oltre la vita.
La loro fama di artisti maledetti, del resto, accompagna con un’aura drammatica e passionale le opere che essi ci hanno lasciato e che ancora oggi evocano in noi meraviglia e il ricordo della loro drammatica esistenza; fantasmi, appunto, che manifestano la loro eternità.

Michelangelo Merisi, detto Caravaggio, spirito indomito e ribelle, litigioso, disordinato, promiscuo, mai inquadrabile, errante e fuggiasco, provocatore. I soggetti di molti dei suoi quadri religiosi erano prostitute o mendicanti. Era infatti il magnificatore degli ultimi, di cui anche egli riteneva di far parte e sublimava i contrasti nell’animo umano, attraverso un uso sapiente di giochi di luci e ombre.

Due musicisti del Cinquecento-Seicento: Stradella e Gesualdo da Venosa, colpevoli rispettivamente di uxoricidio e femminicidio. Assolutamente disarmonici nella condotta di vita, tendevano in contrasto ad un’armonia nella musica, volta proprio ad espiare le loro brutture, alla ricerca di un perdono divino e personale mai concesso nemmeno da se stessi a loro stessi.
Amedeo Modigliani, provato nel corpo e nello spirito da una grave malattia, seduttore e sedotto dagli esseri umani nel vano tentativo di catturare e fare propria la loro anima. Un’anima a lui, drogato consapevole (la droga come mezzo e non come un fine) e inquieto, mai accessibile. Gli occhi nei suoi ritratti infatti, sono ridotti a vuote fessure, tratti resi con linee decise, quasi a voler manifestare proprio questa incapacità.

Antonio Ligabue che viveva come un eremita selvaggio, un disadattato psichico, recluso numerose volte in manicomio, alla disperata ricerca di un semplice “bacio”, di un affetto primitivo e ancestrale che scaldasse la sua vita. Il rosso delle Moto Guzzi acquistate con i proventi dei sempre più numerosi guadagni dai dipinti venduti, compensava a questa mancanza di calore. I suoi quadri erano immaginifici testimoni della sua vita primitiva e dei demoni che abitavano la sua mente: tigri e animali selvatici raffigurati in un coloratissimo paesaggio Pavese. Il disordine e il caos, la fabbricazione dei materiali organici con cui creare i colori, compresi i propri effluvi biologici, rendono le sue opere carnali e paradossalmente precise nelle linee e nei dettagli, quasi a voler creare una parvenza d’ordine nel caos esistenziale.

Tutti questi dettagli sono descritti con grande maestria e scrittura lineare all’interno del libro, così come la nascita delle opere che consegue cronologicamente a eventi e percorsi personali. Il racconto in prima persona del fantasma, senza la pretesa di indugiare troppo sul piano emotivo, induce il lettore a interrogarsi, riflettere e desiderare di guardare e ascoltare le opere menzionate. Come se il pittore o il musicista ci lasciasse lo spazio di interpretare e ampliare le nostre impressioni e considerazioni su quanto creato, spesso, più per istinto, che in modo ragionato.

Ogni impressione è lasciata al sentire di ognuno di noi e soprattutto alla nostra curiosità.

Il racconto delle vite incompiute e maledette di questi miti, del loro modo di guardare a se stessi e la storia delle loro opere, quasi mai apprezzate dai contemporanei, ci porta a provare empatia per queste anime perdute. Ci spinge a desiderare di scorgere le tracce della loro fragilità all’interno dei loro tratti di pennello e tra una nota e l’altra.

L’arte in chi la fa è puro istinto, la bellezza in chi la guarda.
Il vero senso dell’arte probabilmente è proprio questo: riuscire a cogliere la bellezza della fragilità e prenderne parte.

La commozione e l’emozione che ne conseguono sono il segno che la scintilla ha innescato nello spettatore lo stesso fuoco sacro, dirompente nel cuore dell’artista, e lo ha sublimato.
Questo libro vuole essere, e ci riesce, un piccolo fiammifero.

Nell’ultima pagina il libro si potrebbe chiudere come un titolo di coda, “Regia di Vito Molinari”. Lo stesso titolo di coda del 3 gennaio 1954: fu proprio lui a dirigere la trasmissione inaugurale della TV italiana. Aveva appena 22 anni, oggi ha brillantemente superato i 90.

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