Recensione: “Van Gogh e il Giappone”, quella passione che non ti aspetti
Diretto da David Bickerstaff, il docufilm propone un viaggio tra le bellezze della Provenza, l’enigma del Giappone e le sale della mostra ospitata nel 2018 al Van Gogh Museum di Amsterdam.
Grazie alle lettere dell’artista e alle testimonianze dei suoi contemporanei, questo docufilm rivela l’affascinante storia del profondo, intenso legame tra Van Gogh e l’arte giapponese e il ruolo che l’arte di questo paese, mai visitato dall’artista, ebbe sul suo lavoro.
Alle soglie del XIX secolo, il Giappone era ancora un paese isolato: da circa duecento anni, infatti, era in vigore un editto che proibisce agli stranieri l’ingresso nel Paese limitando gli scambi commerciali soltanto alla Cina e ai Paesi Bassi. Nel 1853, però, la flotta statunitense, guidata dal commodoro Perry, a cannoni spianati, impose al Giappone di aprire i propri porti agli stranieri. Seguirono, nel 1854 e nel 1858, i trattati per la liberalizzazione degli scambi e l’apertura di nuovi porti agli americani ed europei.
Arrivarono, così, in Occidente i primi prodotti artistici orientali. All’Esposizione Universale di Londra (1862) si videro, per la prima volta, oggetti d’uso comune in ceramica, lacca e bambù. Apprezzatissimi dalla borghesia furono i ventagli. La cultura giapponese fu protagonista alle successive sei Esposizioni, tra Vienna e Parigi.
Del resto, l’invasione di arte orientale ha influenzato in maniera determinante alcuni impressionisti e post-impressionisti tra cui Edouard Manet , Edgar Degas , James Whistler , Claude Monet , Paul Gauguin ed Henri de Toulouse-Lautrec (1864-1901).
Oltre a indagare la tendenza del japonisme, Van Gogh e il Giappone ci guiderà attraverso l’arte del calligrafo Tomoko Kawao e dell’artista performativo Tatsumi Orimoto per comprendere appieno lo spirito e le caratteristiche dell’arte del Sol Levante.
Parigi venne letteralmente inondata di tutto ciò che era giapponese sotto forma di oggetti decorativi e stampe colorate impresse con matrici di legno chiamate ‘ukiyo-e’ (letteralmente “immagini del mondo fluttuante”). Van Gogh rimase affascinato da tutti gli elementi di questa straordinaria cultura visiva e dal modo in cui potevano essere adattati alla ricerca di un nuovo modo di vedere. Lesse le descrizioni del Giappone, acquistò stampe per tappezzare la sua stanza e studiò attentamente le opere giapponesi soffermandosi sulle figure femminili nei giardini o sui bagnasciuga, su fiori, alberi e rami contorti: apprezzava di quei lavori linee e purezza compositiva tanto da farne una fonte d’ispirazione imprescindibile per la sua pittura.
Nel 1888, del resto, Parigi era diventata per Vincent una città troppo frenetica. Per questo il pittore decise di partire per il sud della Francia, alla ricerca di nuovi spunti e di una vita a più stretto contatto con la natura. In Provenza, Van Gogh scoprì un paesaggio magnifico, una luce potente, una popolazione dai costumi tradizionali e per certi versi “esotici”, capaci di dialogare con la sua visione idealizzata del Giappone e con il suo “sogno” giapponese. Quelli che seguirono furono per lui anni prolifici, ma anche estremamente travagliati, che diedero linfa vitale ad alcune delle opere più iconiche della sua intera produzione, come I Girasoli e i suoi celebri ritratti.
Spiega il regista David Bickerstaff: “La cosa stupefacente nel lavorare a un film su Van Gogh è la ricchezza delle intuizioni che emergono dalle sue lettere o anche solo osservando da vicino le sue opere. Pensi di conoscerle, perché sono famosissime, ma ogni “visione” rivela qualcosa di nuovo. L’intensità del sentire di Van Gogh mentre lotta con la sua arte è messa a nudo con ogni segno che marca sulle tele. È la ricerca di una semplicità potente che ha attratto Vincent van Gogh verso l’arte del Giappone”.
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