Recensione: Un mucchio di bugie – “Non farti illudere, tu che leggi. Guarda, oltre.”
Un mucchio di bugie – racconti scelti 1993-2017
di Giulio Mozzi
Laurana Editore
“Chi è a corto di bugie non può salvarsi”, scriveva la poetessa Alda Merini.
Il pensiero corre immediato alla morte di Socrate che preferì bere la cicuta piuttosto che mentire.
Colui che mette in atto la bugia è allo stesso tempo ingannatore e ingannato.
Esiste la menzogna fine a se stessa e la “finzione”, che diventa imitazione e identificazione con qualcosa di “altro da sè”, sperimentazione linguistica che consente creatività, protesta e trasgressione.
Come ha scritto George Steiner: “Il linguaggio è il principale strumento del rifiuto dell’uomo di accettare il mondo per come è”.
La forza della menzogna risiede nella sua facoltà di ricreare la realtà, di plasmarla a piacimento. L’uomo esercita il proprio potere molto più mentendo che dicendo la verità, verità che si attiene alla faticosa e opaca adesione e corrispondenza tra parole e fatti.
Vi è qualcosa di perversamente divino nella menzogna, una manipolazione e distorsione del reale che scimmiotta l’azione creatrice del Dio che parlò e ciò che disse “fu”, venne all’esistenza.
Chi mente rende esistente ciò che dice e pur sapendolo falso, induce gli altri a crederlo vero. È una forma di seduzione che esprime la dimensione anche erotica del mentire.
C’è un nesso strettissimo tra le qualità che occorrono a uno scrittore e il saper raccontare bugie.
“Sono terrorizzato dal potere della finzione; mi sbalordisce il fatto che io possa raccontare delle storie inventate e che queste riescano a colonizzare la mente del lettore, a farsi prendere per vere -o peggio- a più vere del vero”, scrive il Mozzi presentando il libro ai lettori.
I venti eterogenei racconti, raccolti con grande cura dall’autore stesso in questo volume, hanno una caratteristica comune: leggendo le prime righe si ha già davanti uno scenario ben preciso. Lo sviluppo successivo consegna una storia che poteva essere narrata in un voluminoso libro, diviso per capitoli. Maestro nel dominare la forma del racconto, Mozzi riesce a fare tutto questo in una decina di pagine o poco più.
Il suo prototipo di racconto è un concentrato potente: scatta una sorta di istantanea, punta tutta la forza della sua breve storia su un momento preciso nel tempo, producendo un’epifania che rivela, con poche mirate parole, un intero universo.
Mozzi ha una grande capacità di sintesi e di attenzione al particolare, in più è abile nello spargere innocui indizi che, uno dopo l’altro, svelano l’animo del racconto.
Con ingegno crea e mostra i suoi personaggi, come in una scrittura teatrale: è così con il borseggiatore del primo racconto, che vinta un’ancestrale diffidenza verso il genere umano, scrive una lettera alla sua vittima per un fine ben preciso e poi subito negato, rilegandosi da sè al suo ruolo di reietto da emarginare.
O ancora la mamma ne Il Bambino morto, che nega il dolore e il lutto e continua a cucinare per suo figlio, disperandosi per la sua inappetenza.
Amaro il racconto di Vanessa, che tra sedie, scaffali e schedari di un ufficio postale, consuma il dramma della sua fragilità emotiva.
Personaggi che mantengono viva in loro la fiamma di una cultura più antica, pagana, permeata di riti, superstizioni e sapienze prodigiose.
Personaggi marginali, spesso esclusi dalla società, che si mostrano tramite le loro furfanterie o debolezze, arrivano nello spazio virtuale del racconto mettendo in campo astuzia e ingenuità -talvolta ignoranza- e creano scompiglio o disordine. Sovvertono abitudini comuni, si ribellano al conformismo.
Si inanellano pagina dopo pagina frustrazioni, aridità d’animo, voglia di riscatto, amori feriti, delusioni tremende…
C’è spazio anche per i racconti obliati, quelli che “scritti di furia”, sono stati dimenticati e ritrovati, come racconta l’autore facendo capolino tra le note a piè pagina di Apertura.
Lo stile del Mozzi è equilibrato, preciso, nitido; si dilunga un pò e poi va dritto al punto, disseminando tracce sotto forma di note, rimandi, particolari, utilizzando il dialogo col lettore in modo efficace sin dalla prefazione scritta di suo pugno.
Sta a chi legge cogliere tutti gli indizi e completare, attraverso la propria immaginazione, tutto quello che l’autore suggerisce.
Viene a crearsi un rapporto lettore/autore dove la dimensione della menzogna si risolve nel piacere che essa dona a chi mente sapendo di mentire e a chi si illude sapendo di essere illuso.
Sapere, piacere, potere si trovano perversamente intrecciati nell’atto menzognero:
“So di essere un illusionista, e so che non so non esserlo. Non farti illudere, tu che leggi. Guarda, oltre.”