Recensione: “Tanto vale vivere” – 21 racconti e una prefazione brillante, affettuosa, ironica
Tanto vale vivere
di Dotothy Parker
Prefazione Natalia Aspesi
Traduzione Chiara Libero
Astoria edizioni
“I rasoi fanno male; i fiumi sono freddi; l’acido macchia; i farmaci danno i crampi. Le pistole sono illegali; i cappi cedono; il gas fa schifo. Tanto vale vivere”
Già, tanto vale vivere. La vita è ciò che pulsa, si raccoglie ed esplode dalla penna di Dorothy Parker. Notoriamente preceduta dalla sua fama di donna arguta, spietata, ironica, la scrittrice lascia sfuggire a tratti a un lettore attento, inquietudini e malinconie profonde. La sua poesia più nota “Resumé” è sicuramente la sintesi di una personalità tanto complessa, coraggiosa e tormentata, fragile e invincibile al contempo.
La Parker racconta del suo tempo, senza commiserazione mette nero su bianco l’umanità che la circonda. Ma chi sono gli uomini e soprattutto le donne di Dorothy Parker?
Sono donne che hanno ingannato se stesse al punto che hanno gettato via talenti e desideri, rubacchiano morsi e pezzetti ovunque, che tramano in segreto. Fanno loro compagnia uomini predatori, inariditi, ottusi da loro stessi, capaci di inganni e tradimenti. Per le donne che gli si avvicinano diventa sempre più difficile vivere secondo la loro natura. Le idee, la creatività, la vita sfioriscono. Gli uomini, puerili, meschini, le minacciano, le tengono in ostaggio, le derubano. Talvolta questi racconti ripropongono un trauma vissuto realmente. La Parker non ha avuto una vita facile, rimasta orfana di madre in tenerissima età, ha sviluppato attraverso la sofferenza un pratico cinismo che non è null’altro che una corazza per difendersi dai morsi della fame d’amore, di calore.
Una corazza che spesso si è spezzata, rivelando la parte più frangibile della donna che più volte ha tentato il suicidio. Ma togliersi la vita è così doloroso e così poco elegante…
Tanto vale vivere e vivere fino in fondo, vivere ogni cosa con lucida fermezza. Denunciare col proprio essere al mondo una situazione inaccettabile. Così le donne della Parker non si curano della loro esistenza, si derubano da sole, deprimono la funzione creativa e non fanno nulla per portare soccorso a se stesse, o addirittura si danno un gran da fare per ignorare la loro stessa felicità.
Mi rammentano una storia letta tempo fa, in quel libro “medicina” che è Donne che corrono coi lupi di Clarissa Pinkola Estés, dove si narra di un uomo che andò da un sarto e provò un abito davanti allo specchio. L’abito non cadeva a pennello, ma dietro suggerimento del sarto, tenendo giù la parte più corta dell’orlo con la mano sinistra, girando un po’ la testa e tenendo giù il cavallo con la mano destra, era perfetto… Il giorno dopo il signore indossò il vestito nuovo eseguendo tutte le azioni suggerite dal sarto, e fece un giro al parco. Due vecchi lo notarono, “guarda quel povero storpio”, disse uno. L’altro riflettè un momento poi sussurrò “si è davvero storpio poveretto ma mi chiedo dove avrà trovato un vestito così bello”.
La reazione del secondo vecchio è la “consueta” risposta culturale alla donna che ha sviluppato un’immagine impeccabile ma è storpiata dal tentativo di conservarla. Va bene, è storpia, ma guarda come è bella, come è brava. Le inaridite donne della Parker cercano di camminare tutte storpiate per far vedere che ce la fanno, che va tutto bene.
La penna della Parker sembra agire con disinteresse e calma in superficie, ma ovunque la si guardi con appena un filo di luce, il suo afflato salta fuori, si accende, carica all’impazzata, fa danzare la sua parola senza requie, la esaurisce mostrandone la vena malinconica faticosamente trattenuta, malinconia che di soppiatto cerca di scivolare nella cella oscura prima che qualcuno si accorga che è uscita.
Si comportano così le donne infelicemente sposate e le donne indotte a sentirsi inferiori e le donne piene di vergogna, le donne che temono il castigo, il ridicolo e l’umiliazione. E le donne dall’istinto ferito. E le donne crudeli, quelle ciniche e quelle che arricciano il naso alla vista di persone con un diverso colore della pelle.
21 racconti e una prefazione brillante, affettuosa, ironica, a cura di Natalia Aspesi, fanno di questa raccolta un caustico sciroppo. Qualcosa che trangugi avidamente, ma che poi inizia a bruciarti dentro, a partire dalla lingua fin giù nelle budella.
Perchè non c’è menzogna nella penna della Parker, e non può essercene in noi, non possiamo sottovalutare il fatto che tuttora i talenti femminili vengono derubati, azzoppati, con restrizioni culturali e castighi inflitti al loro ingegno, alla loro creatività. Possiamo rompere con questa condizione solo se c’è un fiume sotterraneo o almeno un piccolo torrente che si riversa sulla nostra vita.
Ma se una donna cede ogni suo potere diventerà prima una nebbia, poi un vapore, infine un filo soltanto vicino a spezzarsi. Un filo sottile come Hazel, la protagonista di Una bella bionda, uno dei racconti più belli dell’autrice. La bionda Hazel che con il suo fascino allegro fa schioccare la lingua agli uomini, che crede di approdare a un lido sicuro e tranquillo con il matrimonio, ma che presto viene lasciata dal marito, finendo con il bazzicare i club dove scorre a fiumi il gin. Il gin, surrogato dell’amore in una vita divenuta squallore e infinita sfilata di uomini che si alternano frettolosi al suo fianco, fino a una dipendenza che consuma corpo e anima.
È letale non avere una persona fidata e neanche un briciolo di incoraggiamento. È difficile rubacchiare piccoli brandelli di vita, ma le donne della Parker, alla moda e medio borghesi, lo fanno abitualmente. Un bicchiere tra le dita affusolate e lo sguardo consapevole dell’inutilità della ribellione, che così dev’essere, tanto vale vivere…
L’abuso di sostanze nocive è una trappola reale, lo è per la stessa autrice, droghe e alcool somigliano molto alla morte, ma è una morte provvisoria, dilazionata, a rate. La trappola ti fa chiudere gli occhi per un pò sul malessere che ti cresce dentro, ma non può mai funzionare. Mai.