Recensione: Stranieri a noi stessi – indagine sulla malattia mentale attraverso 5 vite
Stranieri a noi stessi
di Rachel Aviv
Tradotto da Claudia Durastanti
Iperborea
Sono scarni i dati biografici che disponiamo di Rachel Aviv, a partire dall’età anagrafica.
La terza di copertina di Stranieri a noi stessi ci dice che è una scrittrice e giornalista statunitense e scrive sul New Yorker, dove si occupa, fra gli altri temi, di medicina, istruzione e giustizia.
Tutto quel che possiamo sapere dell’autrice del libro ci viene detto da lei stessa nel Prologo, che rappresenta non solo il punto di partenza della sua narrazione, ma soprattutto la ragione prima, la giustificazione del libro stesso e del suo titolo.
Rachel Aviv ha subìto un ricovero ospedaliero a soli sei anni, per anoressia. Pensa di essere la più giovane cittadina degli Stati Uniti a cui sia stata diagnosticata questa patologia. Per sua fortuna, il ricovero è durato solo poche settimane e la bambina Rachel ha potuto riprendere la propria vita e proseguire la crescita in condizioni di “normalità”.
Ma la breve e traumatica esperienza ha lasciato in Rachel delle sensazioni esperienziali sulle quali si è confrontata e interrogata a lungo. Il primo e principale interrogativo che si è posta è: e se fossi rimasta in ospedale più a lungo? Se fossi rimasta intrappolata nella malattia, facendola diventare una “carriera”? Perché, in quelle poche settimane di ricovero e di trattamento terapeutico, la bambina Rachel ha avuto tempo e modo di accorgersi che la sua malattia metteva a nudo le sue relazioni con gli altri e rappresentava un modo di protestare, di “farsi sentire” da genitori ed educatori. Uno strumento potente di relazione sociale, insomma.
“La sensazione di essermela cavata per un soffio ha acuito la mia attenzione verso le fasi precoci di un malessere, quando una condizione consuma e rende inabili ma non ha ancora riformulato l’identità di una persona e il suo mondo sociale”.
La patologia anoressica poteva cronicizzarsi, dunque, e la vita di Rachel Aviv avrebbe avuto un seguito ben diverso, se si fosse aperta “quella” porta anziché “quell’altra” (vi ricordate “Sliding Doors”?).
E da questi interrogativi nasce nella scrittrice Rachel Aviv la curiosità di indagare la malattia mentale, l’evoluzione della pratica psichiatrica negli Stati Uniti, i successi e l’alternarsi delle varie scuole di pensiero, divise tra l’approccio psicoanalitico e quello chimico-farmacologico, gli aspetti etnico-razziali che influenzano l’approccio delle istituzioni alle malattie mentali. L’indagine viene condotta attraverso il racconto di cinque vite di altrettante persone appartenenti a diverse etnie e classi sociali, vite caratterizzate dallo sviluppo e cura terapeutica di specifiche malattie mentali: dalla depressione alla schizofrenia, dal disturbo bipolare alla mania di persecuzione.
Sono vite di persone delle quali, o dei cui familiari, la Aviv ha fatto conoscenza attraverso contatti diretti o lettura di memoir o testimonianze parentali. Sono racconti paradigmatici legati da un fil rouge, che l’autrice utilizza per indagare e porsi davvero molte domande sull’approccio scientifico e terapeutico negli Stati Uniti alla malattia mentale.
Ray Osheroff, stimato nefrologo, caduto in disgrazia e affetto da depressione; Bapu, casalinga bramina indiana che sfugge alla propria famiglia per abbracciare un totalizzante schizofrenico misticismo; Naomi Gaines, madre single nera, affetta da mania di persecuzione e condannata per aver tentato di uccidere i propri figli al fine di salvarli dalle minacce di una vita misera; Laura Delano, studentessa universitaria e rampolla dell’alta società, affetta da disturbo bipolare e vera e propria cavia della farmacologia imperante; e infine Hava, già presente nel Prologo come compagna di ospedalizzazione della bambina Rachel, alla quale la Aviv ritorna come alla fine di un percorso circolare, per constatare che anche Hava è guarita, sì, dall’anoressia, ma soltanto dopo un lungo e tormentato percorso, alla fine del quale la stessa Hava scrive nel proprio diario: “Credo di essere una di quelle persone che si capisce alla perfezione da sola, eppure sono straniera a me stessa”.
Ci sono tante domande nel libro della Aviv, tutte stimolanti. Se la malattia mentale non sia una risposta alla follia della società contemporanea. Se lo scrivere della propria malattia mentale sia uno strumento per raggiungere la consapevolezza di sé, o piuttosto un modo per rimanerne intrappolato, ossessionato. Se gli psicofarmaci non siano una scorciatoia per non affrontare le radici della malattia. Se la diffusione delle malattie mentali non sia legata in maniera direttamente proporzionale al tasso di benessere ed evoluzione sociale di una società. E tante altre.
L’onestà intellettuale e culturale del libro è che a tutte le legittime domande che si pone la Aviv non fornisce, non se la sente di fornire, risposte certe. Proprio perché quello delle malattie mentali è un campo letteralmente minato: gli scienziati lo sanno perfettamente. Non resta, dunque, che rendersi consapevoli dell’asperità, della labilità, e soprattutto della misteriosità del confine tra normalità e patologia, tra salute mentale e malattia mentale. E prendere atto del dubbio esistenziale che l’autrice affida all’ex compagna di ospedalizzazione, Hava: “Non sono del tutto convinta di voler essere salvata. Magari è solo perché non so bene chi sono e che tipo di persona sarò”.