Recensione: Silenzi d’inverno - i radi suoni di una vecchia cittadina Recensione: Silenzi d’inverno - i radi suoni di una vecchia cittadina

Recensione: Silenzi d’inverno – i radi suoni di una vecchia cittadina

Recensione: Silenzi d’inverno - i radi suoni di una vecchia cittadina Recensione: Silenzi d’inverno - i radi suoni di una vecchia cittadinaSilenzi d’inverno
di Giusi Palazzo
Graus Edizioni

E’ una sonnacchiosa invernale Otranto di fine anni ‘60 del secolo scorso il contesto ambientale nel quale Giusi Palazzo fa muovere i protagonisti del suo romanzo d’esordio.
Scelta felice, per più di un motivo. Conosciamo Otranto per l’austero Castello Aragonese e la splendida Cattedrale dell’Annunziata. Non ne sappiamo molto di più; soprattutto, non ne sentiamo mai parlare nelle cronache politiche o salottiere di tutti i giorni: Otranto è una città silenziosa e discreta. Tanto discreta, che ci è voluto il bagaglio storico-culturale della Palazzo per rinfrescarci la memoria e ricordarci, nelle Note che fanno da postfazione al romanzo, che tra il 1943 e il 1947 Otranto e l’intero comprensorio salentino ospitarono, in campi d’accoglienza organizzati dagli Alleati e dall’appena costituita Società delle Nazioni, decine di migliaia di ebrei scampati ai campi di concentramento nazifascisti per essere avviati verso il nascituro Stato d’Israele.

Ma non lasciatevi ingannare da queste doverose premesse. Proprio la levità e il senso della misura che la Palazzo mostra nel ricordare gli eventi storici e il relativo orrore che costituiscono il non lontano antefatto della vicenda che racconta, ci consentono un azzardo che speriamo l’Autrice ci perdoni se mai dovesse leggere queste nostre righe: Silenzi d’inverno è una storia profondamente e pudicamente intima, nella quale le accennate nefandezze nazifasciste antisemite e le meno accennate vicende socio-politiche a cavallo degli anni ’60 e ‘70 (le rivolte studentesche che si intersecano con le lotte operaie, le grandi riforme legislative quali la legge sul divorzio e lo Statuto dei lavoratori, l’avvento del terrorismo inaugurato dalla strage di Piazza Fontana a Milano) costituiscono una base e uno scenario tanto tenui e posti così in secondo piano, da poter essere considerati come non necessari all’economia del romanzo.

Preferiamo, dunque, vedere nell’austera e silenziosa Otranto degli anni ‘60, con i suoi poco meno di cinquemila abitanti e le viuzze ombrose e deserte e le botteghe che potevi trovare aperte o chiuse a seconda degli impegni privati e gli umori dei titolari, con l’umidità che odora di mare e di vegetali in lenta decomposizione, è in questa accattivante
Otranto di altri ma non lontani tempi che preferiamo individuare il terzo indispensabile protagonista della bella intima storia che ci racconta con padronanza linguistica l’esordiente Giusi Palazzo.
Gli altri due sono la ventenne Aretusa Saltiel, con i dubbi e le irrequietezze proprie dei ventenni sessantottini di provincia, e il suo trentenne insegnante di pianoforte, l’austriaco Johann Sclheicher, segnato dalla macchia di aver avuto un (non conosciuto) padre ebreo.
Ambedue portano e nascondono a fatica il peso di retaggi familiari di cui si sentono colpevoli, Aretusa nei confronti di una sorella alla quale è sopravvissuta, Johann nei confronti della madre, anch’essa morta in circostanze drammatiche.
E l’incontro tra i due, il loro incrociarsi dapprima ostico e tendente al conflittuale, poi progressivamente confluente verso l’inevitabile confronto e solidale messa in comune dei rispettivi retaggi familiari, è mediato non solo e non tanto dalla musica (che, anzi, per una buona metà del romanzo costituisce un inciampo, un terreno di apparente scontro), quanto dagli itinerari e dai rumori, dagli odori delle stradine che Aretusa percorre prima da sola, nel vieni e vai da casa alla scuola di musica e alla bottega dei genitori, poi insieme allo stesso Sclheicher una volta vinti i rispettivi reciproci pudori e mescolate le rispettive non facilmente raccontabili storie familiari.
È dunque l’odore del mare e delle umide mura dei vecchi palazzi, è il silenzio amplificante i radi suoni della vecchia cittadina, è la morsa di un freddo invernale, che accompagnano il lettore nella breve e intensa storia raccontata dalla Palazzo. Storia – pensiamo che l’Autrice ci tenga venga segnalato, per quanto emerge da ciascuna delle centosessanta pagine del libro – prettamente, felicemente e coerentemente al femminile.

Insomma: chapeau!, Silenzi d’inverno segna un ulteriore punto a favore delle Autrici nella competizione di genere che inevitabilmente ha contagiato anche il campo letterario.

Buona lettura.

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