Recensione: Sedotti dalle storie. Usi ed abusi della narrazione –
Sedotti dalle storie. Usi ed abusi della narrazione
di Peter Brooks
Carocci editore
Peter Brooks (1938), statunitense, è uno dei massimi saggisti e critici letterari viventi. Nella sua lunga e prolifica carriera di studioso e di docente, si è dedicato soprattutto ad indagare la letteratura da una visuale psiconalitica e narratologica.
In maniera sbrigativamente riassuntiva, ma comunque esplicativa del suo campo di specializzazione e della metodologia adottata, si può dire che Brooks ha dedicato l’intera vita di ricercatore a studiare e vivisezionare la narrativa nella sua funzione di strumento relazionale, di grimaldello per rapportarsi alla realtà e comprenderla.
E nel suo ultimo saggio, pubblicato negli Stati Uniti nel 2022 e oggi proposto in Italia dall’editore Carocci, Brooks – raccogliendo e sistemando numerosi elementi indiziari provenienti dall’universo della comunicazione – già dal titolo del saggio evidenzia il (e mette in guardia dal) grande potere seduttivo della narrazione.
Con effetti non sempre positivi. Esplicito e inequivocabile in tal senso è il sottotitolo del libro: “Usi e abusi della narrazione”.
“Le storie vengono raccontate per tanti motivi, ad ascoltatori presenti o assenti, e di solito per tirare le somme su qualcosa”, ci dice Brooks con sintetica semplicità. E poiché diversi possono essere i motivi e le finalità per cui si racconta una storia, è facile comprendere come e perché il “raccontare storie” (storytelling) sia un esercizio letterario da tempo uscito dal pur vasto recinto della letteratura, per diventare strumento di comunicazione persuasiva usato e abusato dai protagonisti e dai manipolatori dei più svariati ambiti: da quello economico-aziendale a quello politico, fino a quello giuridico-legale.
Raccontare per convincere. Raccontare una storia per avere successo e farsi amare. Tanto per fare un esempio (e che esempio!), Brooks ci ricorda che “la storia di una “elezione rubata” ha portato alla violenta invasione del Campidoglio nella capitale degli Stati Uniti d’America”.
Oggi, pressoché tutte le aziende si rapportano con il mondo della potenziale clientela non più attraverso le statistiche e i dati produttivi, quanto con il raccontare la propria storia, o comunque una storia. Una storia edificante e per ciò stesso convincente.
Perché, da che mondo è mondo, gli esseri umani hanno bisogno di storie. Cominciando dai bambini, che, più che dall’interazione diretta con la realtà circostante, imparano soprattutto attraverso le interazioni narrative con i genitori, i nonni, i fratelli, le baby sitter.
Non solo. I bambini si pascono delle storie che inventano, si raccontano e interpretano attraverso le finzioni che adottano nel gioco. Chi, da bambino, non ha giocato a “far da mangiare”, utilizzando pietruzze, foglie, aghi di pino, insetti morti al posto di veri ingredienti alimentari? “I bambini”, osserva Brooks, “padroneggiano il pensiero controfattuale, provano emozioni nel gioco pur essendo consapevoli che la fonte dell’emozione è fittizia” . “Ciò significa”, conclude, “che la capacità degli esseri umani di creare finzioni sembra essere presente fin dalla più tenera età”-.
Ma c’è di più. Se la storia ha un ruolo tanto importante, addirittura necessario, per la nostra capacità di comprendere il mondo e interagire con il fuori da sé, è perché si fonda su una modalità di spiegazione che avviene nella dimensione tempo.
E poiché “gli esseri umani sono legati al tempo in un modo molto più forte di quanto siano legati al luogo”, ne consegue come corollario che “la storia è la logica delle spiegazioni e dei significati che si svolgono nel tempo, la logica di coloro che sono mortali”.
D’altra parte, viene da aggiungere che i luoghi appartengono al nostro vissuto e incidono nel nostro vissuto in misura direttamente proporzionale al “pellegrinaggio” che compiamo nel corso della nostra vita. Trasferimenti, ritorni, fughe: i luoghi sono le tappe della nostra
storia. Un esempio per tutti? Il ritorno di Ulisse a Itaca nell’Odissea. La nostalgia e il desiderio dell’isola natia diventano sempre più forti e struggenti nella misura in cui il tormentato viaggio dell’eroe si complica e si prolunga nel tempo.
E poiché il viaggio fortunoso di Ulisse appartiene alla mitologia, val la pena sottolineare che il racconto mitologico, così come quello epico, sono patrimonio indispensabile e irrinunciabile di tutti i popoli che affollano il pianeta, proprio perché sono strumenti sia di comprensione della realtà, che di riconoscimento identitario culturale.
Così come mitologica è – e deve essere considerata – la narrazione della creazione del mondo e dei suoi primi abitanti (esseri umani compresi) contenuta nella Genesi dell’Antico Testamento. Nessun biblista oserebbe sostenere che quel racconto corrisponde a realtà.
Tutti sono concordi nel riconoscere che la Bibbia nasce come narrazione orale, nella quale i destinatari (i “narratari”, come li chiama Brooks per sottolinearne il ruolo di controparte necessaria del narratore) erano per lo più pastori analfabeti, bisognosi di storie semplici e coinvolgenti, di pronta e facile assimilazione.
Molteplici, dunque, possono essere le funzioni del racconto, tutte acomunate da un elemento caratterizzante: il racconto è uno dei principali strumenti con i quali il linguaggio può rappresentare la realtà. O meglio: la realtà che il narratore intende rappresentare.
E qui si comprende facilmente come il racconto possa nascondere un intento elusivo,
ingannevole. Succede quando la storia narrata diventa retorica, strumento di persuasione.
Quanti uomini politici, oggigiorno, ricorrono al racconto di una storia, la propria storia, per ricercare e ottenere il consenso? Da “Una storia italiana” del cavalier Berlusconi a “Io sono Giorgia” dell’attuale premier italiana, gli esempi non mancano.
Bene. La conclusione può essere che siamo sommersi dalle storie. Storie per lo più seducenti. Storie di cui abbiamo bisogno o che comunque ci vengono proposte come indispensabili, e della cui attendibilità poco ci curiamo. Prendiamo, dunque, quello di Peter Brooks come un manualetto di “narratologia” in grado di soccorrerci nel compito di setacciare l’enorme numero di storie che ogni giorno ci vengono propinate, per distinguere quelle “buone”, cioè davvero utili nel nostro rapporto con la realtà, da quelle “taroccate”.
Perché è indispensabile che ci appropriamo di una nozione fondamentale mutuata dalla psicoanalisi e ce ne serviamo in modo appropriato: “la fattualità della storia costruita tra paziente e analista non ha alcuna importanza, ciò che conta è solo la storia stessa, la sua capacità di creare un convincimento terapeutico. Il potere della storia di dare un senso alla vita è tutto ciò che conta”.