Recensione: Santi e Bevitori – l’incomprensione degli astemi
“Nelle cose davvero serie non serve prendersi sul serio.”
E se Lawrence Osborne avesse scritto Santi e Bevitori, edito da Adelphi con la traduzione di Mariagrazia Gini, per farci toccare con mano gli effetti nefasti dell’alcol sulle persone, mascherandosi, letterariamente, da “addicted” sicuro di sé (e dunque molto antipatico) che spaccia per un filtro magico quello che in definitiva è VELENO?
Direi che la sua missione è del tutto compiuta: basta dare un’occhiata alle classifiche, su tutti i giornali.
Ma il punto è un altro.
Osborne, inglese convertito all’americanismo, fiero della sua moyenne yankee arrogante, miope, pare offrirci un’opera priva di struttura e di plot ma dallo stile potentemente documentaristico, dove il fine ultimo parrebbe andare caccia dell’animale più raro che esista sulla faccia della Terra: l’islamico bevitore.
Ma il punto è un altro; cito, alla lettera: “L’Highlander con le sue patetiche pretese documentarie è morto, grazie a Dio.”
Osborne infatti, non attua una provocazione in stile Borat, ma riprende un’antica tradizione letteraria: il dialogo filosofico. Che in questo caso, per ragioni evidenti, non può che avere un andamento monologante, ma che si accosta, di tutto diritto, a quel capolavoro di Denis Diderot dal titolo Il nipote di Rameau, in cui si affrontano, in un locale, IO e LUI, ovvero il bene e il male, la virtù e il vizio.
Si compone, così, una sorta di pamphlet onesto, sincero, privo di retorica e soprattutto ironico (se letto dal punto di vista di un mediterraneo bevitore, ovviamente): Osborne, come Rameau, scrive cose assurde e terribili insieme, del tipo: “sono a Milano, prendo un gin tonic col Gordon’s, pago 40 euro” o “Beirut per me è come Napoli”.
Ma il punto è un altro, cito sempre il Nostro:
“Il bevitore è un dionisiaco, un danzatore seduto, un burlone. Non ha bisogno della serietà né della stima. Gli basta un po’ di musica sommessa e una dolce libertà concessa dai sacerdoti.”
Cos’è, infatti, Santi e Bevitori, se non l’ultimo di una lunga serie di manuali che mandano l’occidente sulla via della pattumiera?
Osborne lo fa, e fin qui nicht neues. Quello che stupisce è il suo come: al suo posto, René Guenon ci avrebbe edotto, ex cathedra, su cosa non va in noi; Osborne invece è noi, come è noi il Nipote di Rameau, o l’IO di Diderot.
In Santi e Bevitori, difatti, possiamo scegliere se seguire il nostro caro Lawrence e il suo cattivissimo gusto anglo-americano oppure i suoi interlocutori, siano essi un gruppo di studenti libanesi o l’ex signore della guerra druso Walid Jumblatt.
“Ci sono giorni in cui, seduto al bar di un quartiere triste, qui a Beirut o altrove, di norma solo e separato dal genere umano come da un muro di pietra, sento stillare qualcosa nel profondo, un suono d’acqua sporca che scorre in un bosco, e ho l’impressione che tutto vada alla rallentatore.”
Parlavamo del come di Osborne: cosa rende, infatti, Santi e Bevitori degno di una corsa primo pomeridiana, verso la libreria più vicina, sotto il sole (di questi tempi più giaguaro che mai)?
L’andamento e il ritmo di un testo che fluisce innanzi con la dignità di un monologo di Berkoff, fisicamente, direi quasi onomatopeicamente in linea con la condizione psichica del bevitore livello esperto.
La vita, nel frattempo, continua: la sveglia suona per tutti, anche per il nostro caro yankee.
Ce lo dice lui stesso: “ quando finisco la bottiglia sono a metà tra il sonno e la veglia, e riaprendo gli occhi scopro che lo staff del Windsor ha portato via il secchiello, il bicchiere e la bottiglia. Anche mia madre se n’è andata, e non ci sono che io nella luce del giorno, in attesa che un orologio suoni di nuovo le sei, come farà ogni giorno, fino all’ultimo.”