Recensione: “Rifkin’s Festival” – Cinema, nevrosi e nostalgia
Nostalgia canaglia, cantavano Al Bano e Romina Power nel 1987. Chissà se Woody Allen l’ha ascoltata. Di sicuro è un titolo che viene in mente guardando Rifkin’s Festival, ultima fatica cinematografica del maestro hollywoodiano, girato nel 2019 ma uscito, causa pandemia, solo oggi. È infatti proprio il 6 maggio la data nella quale il film esce nelle sale cinematografiche.
Mort Rifkin, il protagonista interpretato da Wallace Shawn, è un accademico cinematografico e scrittore che si trova ad accompagnare la moglie Sue (Gina Gershon), che fa la PR, al Festival cinematografico di San Sebastian, in Spagna. La scelta della location non è casuale, poiché la spagnola MediaPro ha finanziato il film, ma questo non toglie nulla alla bellezza dei paesaggi, magnificamente sottolineati dalla fotografia, firmata dalla leggenda Vittorio Storaro.
Ben presto Mort si renderà conto di non essere un plus one solo al Festival, ma bensì nella vita della moglie, ormai in piena rotta di collisione con il marito e più che tentata dalle lusinghe di Philippe, un regista tanto affascinante quanto pomposo, per cui Sue ha una vera e propria cotta, ricambiata con sapienza dal francese. Rifkin è sempre di troppo, persino nelle conversazioni, che lui considera in fondo il suo cavallo di battaglia.
Mort, che incorpora le classiche nevrosi cui ci ha abituato Allen nel disegnare i propri protagonisti (costringendo in questo caso il buon Shawn a dover ereditare buona parte della mimica di Allen stesso), cerca aiuto in un medico, salvo scoprire una donna affascinante nella cardiologa Jo Rojas.
Nostalgia, dicevamo, e non intendiamo smentirci: è questo il vero leit motiv di Rifkin’s Festival.
Sue è sicuramente affascinata da Philippe perché più giovane e sicuramente più attraente di Mort, ma la vera sua fascinazione è la nostalgia per un amore ormai spento e che ritrova nelle attenzioni di un uomo latino. Lo stesso protagonista, in fondo, apprezza in Jo più un’attenta ascoltatrice delle sue riflessioni che un convinto trasporto amoroso. Del resto, i pensieri di Mort, rappresentati in un’onirica carrellata di reinterpretazioni cinematografiche, rigorosamente in bianco e nero, sono il vero rifugio del sentimento che lo anima: più che la passione o il rimpianto, appunto la nostalgia.
È quel festival che alberga nella psiche di Mort Rifkin ciò che dà il titolo al film, più che la kermesse di San Sebastian. In quella serie di frammenti, c’è spazio per i mostri sacri del cinema europeo, più volte citati dallo stesso Mort: troviamo Persona di Bergman, rigorosamente in svedese, con citazioni da Jules et Jim, Quarto Potere, Il settimo sigillo, senza dimenticare una appassionata citazione felliniana.
Va detto, il Woody Allen dei tempi d’oro non c’è più ed è inutile cercarne le tracce in Rifkin’s Festival. Si tratta, comunque, di un prodotto onesto e di una riflessione sulla terza età inaspettatamente sincera e un po’ malinconica. I bei paesaggi, la magnifica fotografia, la buona interpretazione degli attori e le gustose citazioni cinematografiche fanno sì che l’ora e mezza sia gradevole, pur senza acuti.