Recensione: “Reflection”, un film sulla guerra russo-ucraina, tra umanità e ferocia
Reflection, il nuovo lavoro di Valentyn Vasjanovyč, regista ucraino già apprezzato per Atlantis, esce domani nelle sale. Con un incredibile coincidenza di tempi.
Come il precedente lavoro, Reflection parla della guerra russo-ucraina, tuttora in corso e argomento di drammatica attualità. Ma mentre Atlantis (che peraltro arriverà anch’esso nelle sale italiane in aprile) era ambientato in un 2025 nel quale si celebrava la pace, quest’ultimo film vede svolgere i fatti nel 2014, anno in cui il conflitto è cominciato. Già, perché nel Donbass, Ucraina orientale, è in atto già da otto anni un conflitto che, con un tecnicismo insopportabile, viene definito a bassa intensità. Reflection ci aiuta a capire quanto questa definizione sia fuorviante, a dir poco.
Serhiy, il protagonista, medico chirurgo ucraino, è alle prese con le sfide del proprio lavoro e con la difficoltà di rapporto sia con la figlia che con l’ex-moglie e il suo nuovo compagno. Un tipico uomo della classe media, che della guerra vede solo qualche cadavere che arriva in ospedale. Ci si troverà invece immerso totalmente quando verrà catturato nella regione orientale dell’Ucraina, quel Donbass conteso con la Russia e dove i russi e i filorussi fanno sentire la loro presenza militare.
Così Serhiy conoscerà l’altro lato della guerra, dovendo di fatto mettersi al servizio dei combattenti filorussi in qualità di medico. Sarà un percorso nell’orrore, quello terrificante come solo la guerra sa produrre, gli uomini ridotti a carcasse, la vita svalutata sino a non valere nulla, la violenza come unico linguaggio. Un percorso catartico, se si può parlare di catarsi attraverso la violenza, che porterà Serhiy a tornare, a seguito di uno scambio di prigionieri, nella sua vita da middle class con una nuova consapevolezza, che lo aiuterà nei rapporti tesi della sua famiglia.
Vasjanovyč sceglie un taglio narrativo del tutto documentaristico: la camera è quasi sempre fissa, osservatore neutro ed esterno, a coinvolgere direttamente lo spettatore condividendo il punto di vista senza mediazione alcuna. Impressionante, quindi, l’immersione in celle fredde (non solo per la temperatura), nella stanza delle torture, nel “crematorio portatile” con cui ci si sbarazza, frettolosamente, dei cadaveri come si fa con i rifiuti più sgraditi, quelli che fanno cattivo odore, quasi fossero i resti della cena.
Persino il salotto medio-borghese di Serhiy è tutt’altro che immune dal trucido: all’improvviso, un piccione si schianta contro la finestra, lasciando un segno , la traccia insanguinata causata dall’impatto della testa, le piume rimaste attaccate al vetro. Una riflessione, che poi sarà anche quella della figlia, sulla morte e sulla speranza della resurrezione. Tra l’altro questo è un episodio realmente accaduto al regista, che ne ha parlato con la figlia che si poneva mille domande, e che ha dato origine proprio a Reflection.
Ci troviamo davanti a un’analisi, piena di sentimento e di empatia, sulla guerra, la violenza, la vita e la morte, il tradimento e la redenzione. Impossibile non sentirsi coinvolti, soprattutto in questi giorni, e Reflection funziona più di decine di trasmissioni TV da cui siamo inondati. Qui si va nel profondo, si affonda la lama nella nostra coscienza con la stessa intensità di una tortura, a cercare nello spettatore la stessa catarsi di Serhiy. E il risultato è assicurato.