Recensione: “Prigione 77” – La Spagna nella difficile transizione verso la democrazia, vista dal carcere
Le mura del “carcere modello” di Barcellona raccontano, più di tante fotografie delle piazze, quanto sia difficile per la Spagna abbracciare la democrazia.
Siamo nel 1976, Francisco Franco è morto da qualche mese e nelle strade c’è euforia. Ma questo il regista Alberto Rodriguez (conosciuto per La isla minima) ce lo lascia solo immaginare, perché tutto il film (o quasi) è girato in interni. Accompagnamo Manuel (Miguel Herrán, visto in La casa di carta ed Elite) nella sua vicenda carceraria, dovuta a un furto di una modesta somma di denaro perpetrato in circostanze poco chiare. Il giovane, figlio di emigranti andalusi, deve scontare una pena di 20 anni, esagerata per il reato commesso, e attende un nuovo processo.
Manuel vive questa esperienza mantenendo un distacco evidente nei confronti degli altri, quasi un corpo estraneo nell’istituto penitenziario. Glielo dirà in faccia Pino, il suo compagno di cella, definendolo “turista” per i suoi atteggiamenti, ma ricordandogli che, in fondo, è “un detenuto comune, come tutti gli altri”. Sarà un punto di svolta del film.
Dall’interno si vivono tutte le contraddizioni del periodo storico, tra grandi aspettative di democrazia, gli sberleffi reazionari delle guardie, gli inevitabili meccanismi conflittuali tra carcerati, prigionieri per le loro preferenze sessuali, per essere poveri, per non avere un lavoro o per il loro credo politico. Si crea persiono un “sindacato dei detenuti” in grado di dialogare con la politica. Dove non arriverà il diritto, servirà l’azione.
Prigione 77, nei cinema da oggi, è ispirato a fatti realmente accaduti, sulla fuga di 45 carcerati dalla prigione modello di Barcellona, che è diventata la più grande evasione della storia spagnola. E anche il “sindacato” è realmente esistito: si trattava del il COPEL (Comitato Coordinatore dei Prigionieri in Lotta), un movimento che riuscì a diffondersi nelle carceri di tutto lo stato per migliorare le condizioni disumane e deplorevoli in cui vivevano i detenuti a quei tempi e dove regnava la legge del più forte.
Il film è inevitabilmente ed efficacemente claustrofobico, con azzeccate inquadrature che rendono il racconto decisamente coinvolgente. Persino nei momenti nei quali, inevitabilmente, la trama rallenta per i necessari momenti di approfondimento, non ci si annoia. Prevale il pathos con il quale si finisce con il vivere il percorso dei protagonisti, l’empatia è alimentata anche dalla crudezza della vita carceraria, raccontata con onestà dal regista. Evidenti i riferimenti cinematografici: da La grande fuga a Fuga da Alcatraz, da Nel nome del padre a Le ali della libertà.
L’abbondanza di tali collegamenti filmici potrebbe far pensare a un doppione, colmo di “già visto”. Del resto, i penitenziari da sempre si sposano magnificamente con la macchina da presa. Ma proprio la scelta di un periodo così intenso e denso di contraddizioni (e poco conosciuto, mi permetto di aggiungere) rende Prigione 77 un film originale che vale la pena vedere. Un film dove forza e bellezza convivono, in un insieme armonico, che sa parlare di futuro e di speranza e capace di esaltare la bella prova dei due attori principali.