Recensione: Ossa nel deserto - dolente elegia funebre Recensione: Ossa nel deserto - dolente elegia funebre

Recensione: Ossa nel deserto – dolente elegia funebre

Recensione: Ossa nel deserto - dolente elegia funebre Recensione: Ossa nel deserto - dolente elegia funebreOssa nel deserto
di Sergio Gonzàlez Rodrìguez
tradotto da: Gina Maneri, Andrea Mazza
Adelphi Edizioni

“Ossa nel deserto” non è un romanzo. E neppure un saggio. “Ossa nel deserto” è una requisitoria giornalistica che potrebbe figurare tra gli atti di un processo, un j’accuse di 338 fittissime pagine scritto da un giornalista più che coraggioso, per il quale “ricordare è divenuto per me un imperativo … ricorda. Ormai fai parte dei morti. Rendi loro omaggio”. “Ossa nel deserto” è, per l’appunto, un dolorosissimo omaggio alle centinaia di donne, per lo più giovani e appartenenti agli ultimi gradini della scala sociale, violentate e assassinate a Ciudad Juàrez (Messico) tra l’anno 1993 e l’anno 2002, i corpi delle quali non hanno beneficiato neppure del risarcimento, squisitamente e unicamente morale, di veder assicurati i colpevoli – assassini e mandanti – alla giustizia.

Ha rischiato grosso, Sergio Gonzàlez Rodrìguez (Città del Messico, 1950 – 2017). Ha ricevuto espliciti avvertimenti e minacce di morte. È stato anche aggredito e pestato a sangue. Perché ha ficcato il naso in uno dei letamai umani più fetidi del mondo: Ciudad Juàrez, Stato di Chihuahua, Messico. La città che, secondo gli esperti, vanta il primato mondiale della pericolosità. La metropoli che ha sfruttato la sua posizione di confine tra Stati Uniti e Messico (posizione condivisa con la contigua città texana di El Paso), per diventare una delle capitali mondiali del narcotraffico internazionale. Con tutte le conseguenze che si possono facilmente immaginare.

Ciudad Juàrez è anche la città che ospita le maquiladoras, cattedrali industriali piantate nel deserto e destinate alla fabbricazione della componentistica per i macchinari assemblati dai più blasonati giganti dell’hi tech. Fabbriche che occupano per lo più mano d’opera femminile, sottopagata e sfruttata secondo le disumane regole del moderno schiavismo industriale. Sono proprio le maquiladoras che in gran parte “sfornano” le vittime degli assassini che assicurano a Ciudad Juàrez il triste primato di città più pericolosa al mondo: giovani donne riscattate alla miseria dalla paga che ricevono dalla fabbrica, giovani donne che dopo dieci ore di lavoro abbrutente vogliono divertirsi e ballare. E bere. Giovani donne che le maquiladoras consegnano, con tutta la loro voglia di vivere e nella totale inconsapevolezza, alle fauci avide e maleodoranti di quella mostruosa giostra di alcool, denaro e droga manovrata dai veri padroni di Ciudad Juàrez: i narcotrafficanti.

È un triangolo infernale, quello che compone e racchiude il regno dell’orrore di Ciudad Juàrez. E se un lato è costituito dal narcotraffico, se il secondo è rappresentato dalle maquiladoras, il terzo lato non può che essere occupato dalle autorità, sia governative che giudiziarie e di polizia. Ben che vada inefficienti, ma per lo più corrotte e colluse. Ben che vada non sanno indagare. E, magari, ritengono già un successo ritrovare nel deserto – il più delle volte casualmente – i corpi in via di decomposizione delle vittime.
Non ci sono aggettivi roboanti, nell’indagine di Gonzàlez Rodrìguez, non c’è enfasi. Non occorrono, né gli aggettivi, né tanto meno l’enfasi. Bastano i numeri, bastano i nomi e i cognomi, le circostanze delle sparizioni e (molto meno frequenti) dei ritrovamenti. E i nomi e cognomi, numerosissimi, sono quelli delle vittime, dei testimoni di comodo o pagati, dei funzionari di polizia, dei procuratori di giustizia, dei giudici, in un intreccio che è groviglio, ragnatela appiccicosa e maleodorante. E il maleodore, manco a dirlo, è quello della corruzione, dell’oscuro sottobosco delle trame politiche. Del denaro riciclato.
E c’è il solito balletto statistico dei numeri, quelli forniti “al risparmio” dalle autorità e quelli molto più grandi raccolti dalla stampa, da quei giornalisti impiccioni e testardi come Gonzàlez Rodrìguez.

In questa dolente elegia funebre delle centinaia di giovani donne assassinate a Ciudad Juàrez nel periodo che va dal 1993 al 2002 (ricordiamo che “Huesos en el desierto” fu pubblicato in Messico nell’anno 2002 e che la prima edizione in italiano di Adelphi risale al 2006), non mancano neppure importanti e lapidari riferimenti di carattere macroeconomico, anche questi affidati alla scarna significatività dei numeri. Ne citiamo uno, forse il più significativo: secondo il Centro messicano di Investigazione e Sicurezza Nazionale, “se il narcotraffico venisse debellato, l’economia degli Stati Uniti subirebbe perdite comprese tra il 19 e il 22%, mentre quella messicana vedrebbe un crollo del 63%”.

L’indagare di Gonzàlez Rodrìguez si ferma all’anno 2002, come ho già detto. Ma è lecito ritenere che, come un lugubre nastro funebre, il periodo indagato possa essere spostato lungo il binario degli anni successivi e giungere non smentito fino ai nostri giorni, per continuare a riempirci di un doveroso orrore. Questo ritengo sia stato il lodevole intento della casa editrice Adelphi nel ridare oggi alle stampe “Ossa nel deserto”. Che mantiene, ahinoi!, tutta la sua tragica attualità.
Un’ultima annotazione. La quarta di copertina ospita una sorta di epitaffio scritto da Roberto Bolaῆo, il grande romanziere cileno scomparso nel 2003. “E’ un libro”, scrive Bolaῆo, “che non appartiene alla tradizione avventuriera ma alla tradizione apocalittica, che sono le uniche tradizioni rimaste vive nel nostro continente, forse perché sono le uniche in grado di avvicinarci all’abisso che ci circonda”.
È vero. “Ossa nel deserto” ci conduce in un abisso. Orrido, per usare un aggettivo leopardiano.
Con la sensazione, una volta terminata la lettura, di non essere capaci di riemergerne. Di essere rimasti intrappolati nell’inferno.

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