Recensione: Nei palchi e sulle sedie - La competizione tra palchettisti e i parterristi Recensione: Nei palchi e sulle sedie - La competizione tra palchettisti e i parterristi
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Recensione: Nei palchi e sulle sedie – La competizione tra palchettisti e i parterristi

Recensione: Nei palchi e sulle sedie - La competizione tra palchettisti e i parterristi Recensione: Nei palchi e sulle sedie - La competizione tra palchettisti e i parterristiNei palchi e sulle sedie
Il teatro musicale nella società italiana dell’Ottocento
di Carlida Steffan e Luca Zoppelli
Carocci Editore

Avreste mai detto che per tutta la prima metà dell’Ottocento, tra i vari motivi che inducevano gli aristocratici e, in generale, le élites delle grandi città italiane a una frequentazione assidua dei teatri dell’opera nella stagione invernale (che voleva dire recarsi a teatro più sere nel corso della stessa settimana), vi era quello, banalmente pratico, di potersi evitare un onere che all’epoca era “pazzescamente costoso”, vale a dire quello di “riscaldare gli aviti saloni delle solenni dimore di città”?
Bene, gli autori di “Nei palchi e sulle sedie” (Carocci Editore – giugno 2023) offrono questo e cento altri gustosi spunti di riflessione per farci comprendere quale ruolo – quale preponderante ruolo! – abbia svolto il teatro musicale nella società italiana nel secolo che ha visto compiersi l’Unità della Nazione.

Carlida Steffan e Luca Zoppelli sono docenti di storia della musica con credenziali di tutto rispetto, titolari di cattedre universitarie e profondi conoscitori del tema trattato dal saggio che qui commentiamo. Saggio, peraltro, corredato da una bibliografia che non esitiamo a dire, se non sterminata, quantomeno ricchissima e da un altrettanto ricco indice di nomi.
Il palmarès degli autori, nonché l’indirizzo specialistico dell’Editore Carocci, farebbero dunque pensare a un saggio fruibile dai soli intenditori (“intendenti”, per seguire il vocabolario dell’Ottocento), pane per consumati e ben preparati melomani.

Ma noi melomani non siamo e non siamo mai stati, delle opere liriche non sopportiamo la tortura dei lunghi e ingombranti recitativi, non riusciamo proprio a far nostro il tormento di rubicondi tenori che ripetutamente singhiozzano “l’ora è fuggita e muoio disperato” mentre ostentano corpaccioni da gastronauti in piena salute. Insomma, fin da ragazzini, costretti da un padre di educazione europea a frequentare i teatri per assorbire dalla musica classica le vitamine necessarie a una sana crescita culturale e spirituale, le opere di Puccini, Mascagni e compagnia bella ci estenuavano e le subivamo come una medicina dal sapore non gradevole.

Ciononostante, la lettura di Nei palchi e sulle sedie è stata un vero piacere, una navigazione piena di gradite istruttive sorprese e – come accennato sopra – ricchissima di stimoli a una riflessione sconfinante lo steccato dell’opera lirica in sé. E la promessa di una piacevole lettura è già contenuta nel titolo (felicissimo titolo!), la cui misteriosa ambiguità viene disvelata intorno al terzo dei nove capitoli nei quali si articola il saggio.

Perché proprio nella dicotomia tra i ricchi palchi e le modeste sedie dei teatri dell’opera, nella competizione tra palchettisti (le élites cittadine) e i parterristi (la piccola borghesia, i ceti meno abbienti) si muove e si evolve il teatro italiano dell’opera. Teatro dell’opera che all’inizio e per tutta la prima metà del secolo diciannovesimo è appannaggio delle élites aristocratiche dei grandi centri urbani e costituisce, per questa classe di privilegiati, l’epicentro della vita di società, il luogo per eccellenza ove conversare e ostentarsi, corteggiare ed essere corteggiati (e, come accennato sopra, riscaldarsi).
Sì, avete letto bene: luogo anzitutto ove poter amabilmente conversare, magari scambiandosi le visite da un palco all’altro, in pieno svolgimento dell’opera e con un rumoreggiare che sovrasta prepotentemente le note musicali e i dodipetto dei volonterosi cantanti. Perché – ci rivelano Steffan e Zoppelli – i membri delle classi agiate al teatro dell’opera mica ci andavano per ascoltar la musica e vedere i cantanti (spesso di modesta levatura tecnica) che si agitavano sul palco (frequentazione “assidua”, cioè quasi quotidiana, del teatro voleva dire sorbirsi la stessa opera anche una quindicina di volte nella stessa stagione). No. Ci andavano soprattutto per chiacchierare, giocare a carte, scambiarsi visite, al riparo della tendina del palco chiusa, che ogni tanto aprivano per degnarsi di gustare quelle (poche) melodie che ben conoscevano e apprezzavano di più.

Bisognerà attendere – ci spiegano Steffan e Zoppelli – che prendano il sopravvento i parterristi, cioè gli occupanti le sedie di platea, i frequentatori meno abbienti, quelli che a teatro ci vanno per ascoltare la musica (gli intendenti) e che piano piano diventano la maggioranza, perché l’opera lirica assuma la funzione e il valore artistici che oggi le attribuiamo, perché gli autori si impegnino a produrre opere di qualità (intendendosi per tali opere che non puntavano esclusivamente a compiacere le esigenze mondane delle classi agiate), cercando librettisti di qualità e affidando l’esecuzione a cantanti possibilmente di razza.
Questo e molto altro ci dice della società italiana dell’Ottocento Nei palchi e sulle sedie, attraverso un’osservazione al microscopio della materia musicale.
E noi, durante questa accurata osservazione piacevolmente impostaci dalla lettura del saggio, non abbiamo potuto esimerci da ripetuti parallelismi e confronti con gli strumenti di intrattenimento di massa che ci offre la società contemporanea, partendo da quel Lascia o Raddoppia, che il giovedì sera irrompeva anche nelle sale cinematografiche a sospendere la proiezione di film anche serissimi e artisticamente elevati, per consentirci di trepidare insieme al concorrente alle prese con la domanda da cinque milioni e centoventi mila lire (€ 2.644,26. Vuoi mettere?).

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