Recensione: “Medicina Inedita” – L’umanizzazione del paziente
Il saggio di Gianpaolo Donzelli e Pietro Spadafora “Medicina Inedita” suggerisce un punto di vista differente e innovativo circa il concetto di “cura” alla malattia.
Il testo è fluido e comprensibile. I riferimenti storico-antropologici, filosofici e psicologici sono ben introdotti, chiarificanti e rendono il libro fruibile a tutte le tipologie di lettore.
La connotazione di saggio a ogni modo, non rende questo testo una sorta di precettore, bensì un enorme e variegato spunto di riflessione su nuovi possibili scenari di cura, che tengano conto della complessità umana del malato e non solo delle priorità mediche dettate da protocolli.
Nel tempo, spiegano gli autori, accanto alle competenze mediche per la risoluzione delle malattie, si è sentita una fortissima esigenza di umanizzazione della medicina; sono nate infatti delle corporazioni come la Medical Humanities, che hanno tentato di inquadrare la malattia in un contesto differente rispetto alla medicina tradizionale o EBM (medicina basata sulle evidenze scientifiche).
L’idea nobile di tali corporazioni ha riguardato prioritariamente l’atteggiamento del medico rispetto all’ammalato, che nella consuetudine si esplica sostanzialmente nell’applicazione di una serie di protocolli spersonalizzanti, con uno sguardo al paziente prevalentemente medico e non umano.
Queste corporazioni e la loro diffusione sono state accolte da molti sistemi sanitari di diverse nazioni, con grande riluttanza.
Lo sguardo “umano”, la visita medica svolta come esame obiettivo, il dialogo con il paziente, risultano utopia in un sistema sanitario dove, almeno in Italia, le cure sono gratuite e parte integrante del welfare state, ma la professione medica e tutte le procedure sono incastrate in dimensioni ospedaliere a connotazione politico aziendale, in cui si dà peso a obiettivi numerici, giorni di ricovero, numero di prestazioni al giorno, scarsità di personale medico, turni logoranti.
Il paziente viene inserito in flussi economici di dati relativi a farmaci, accessi ospedalieri, dispositivi utilizzati: il paziente diventa semplicemente definibile come un “utente”.
L’umanizzazione del paziente e la “cura” della malattia si riducono quindi per forza di cose, all’attuazione di esami obiettivi rapidi e procedimenti diagnostici.
Il paziente non si sente visto e spesso nemmeno gli viene comunicato tutto quello che concerne la propria malattia, le conseguenze e eventuali evoluzioni.
In un sistema che corre e produce c’è tempo per produrre guarigione o palliativi, ma non per curare.
La cura prevede accoglienza, dialogo, invito alla prevenzione, multidisciplinarietà, scienza e coscienza.
Senza entrare in ambito metafisico spirituale e senza scadere nella considerazione nevrotica e predominante di oggi, che vuole tutti gli individui sani, quasi come se la malattia fosse una colpa di chi è poco consapevole e attento ai bisogni del proprio corpo, è indubbio che occuparsi di un paziente con cura presupponga attenzione e la consapevolezza che è vero che la malattia serve a morire ed è quindi il destino inevitabile di tutti.
Ma è anche vero che prendersi cura delle persone, le stimolerebbe a riempire quell’intervallo di vita di voglia di prendersi cura di sè e incentiverebbe, attraverso la comprensione e la comunicazione ad accrescere il desiderio di salute.
La figura di “medico inedito” auspicata nel saggio potrebbe e anzi dovrebbe essere in realtà, il vero modo di prendersi cura degli altri.