Recensione: "L’Etica di fine vita" - Un dono all'anima Recensione: "L’Etica di fine vita" - Un dono all'anima

Recensione: “L’Etica di fine vita” – Un dono all’anima

Recensione: "L’Etica di fine vita" - Un dono all'anima Recensione: "L’Etica di fine vita" - Un dono all'animaL’Etica di fine vita
Autore: Fabrizio Turoldo
Editore: Città nuova editrice
Collana:
IDEE/filosofia (collana con peer review e comitato scientifico)

L’uomo, finché vive, è sempre unità di anima e corpo. Noi siamo abituati a una rappresentazione sempre contemporanea di tutto il corpo in tutta l’anima, ma ci sono degli stadi di oblio dell’anima, in cui l’anima resta sullo sfondo e il corpo rinuncia a parlare dei linguaggi perché l’anima non gli è totalmente presente. Eppure, anche questa è unità di corpo e anima.

A poco più di metà percorso all’interno del saggio “L’Etica di fine vita”, ci troviamo a dover fare i conti con questa affermazione.
Siamo lì, fermi, a interrogarci su essa e non possiamo andare avanti senza attenta riflessione perché restiamo inchiodati lì, con mente, cuore, corpo e anima.
Le interrogazioni e le domande aperte sono molte in questo saggio e non da ultimo, traspare anche il calore del sentirsi accolti.
Facciamo un passo indietro, allora, e seguiamolo dall’inizio.

Questo saggio del 2021 si colloca nel panorama degli studi di filosofia morale sul concetto di cura analizzato ad ampio spettro e in una dimensione olistica dell’essere umano. Introduce uno sguardo nuovo che raccoglie, fa proprie e amplia le prospettive della medicina fino a ora ancora troppo specialistica, e della filosofia morale che di queste tematiche deve tornare a occuparsi in modo maggiormente fattivo. Di indubbio supporto per malati e familiari e indispensabile a chiunque intenda relazionarsi al meglio con il proprio prossimo cercando prima di comprendersi e poi, forse, persino di poter comprendere.

La prima parte del libro si concentra sul ruolo della cura (vicino al concetto di “centro”) con il contributo che una parte della bioetica ha fornito alla prassi socioassistenziale.

La seconda parte esplora il concetto di limite (vicino al concetto di “periferia”) delle cure mediche.

Il saggio ha, come supplementi, una appendice legislativa e un’altra riguardante determinati casi concreti che si amalgamano con la parte teoretica esposta.

L’originalità del saggio è nel giusto e non sempre facile equilibrio tra centro e periferia e nel trattare la periferia solo dopo aver chiaramente compreso il centro. Ci troviamo a dover parlare di limiti senza partire dai limiti, perché sono un passo successivo, e questo è un valore aggiunto. Non si pone in contrasto ma in connessione.

Utilizza più registri: quello filosofico e quello più comune per non addetti ai lavori e parla a entrambi contemporaneamente e in modo diverso.

Il titolo del saggio a cosa fa pensare? No, non è un saggio sull’eutanasia. Sin dalle prime parole del libro si sostiene, infatti, che “I principali autori della letteratura bioetica contemporanea, trattando della fine della vita, hanno sempre dato ampio spazio al problema dell’eutanasia, trascurando, invece, nella maggior parte dei casi, il tema dell’accompagnamento dei morenti, quasi che la questione del “quando” morire costituisse un problema più rilevante rispetto a quello del “come” morire”.

Da queste primissime parole iniziali comprendiamo subito che qui è il “come” che conta e possiamo già intuire quanto possano contare il dialogo e la relazione.

Al concetto di eutanasia sono dedicate solo poche pagine finali.
Subito è dichiarato quale sia il grave problema dell’odierna medicina tecnologica e iperspecialistica: il riduzionismo.
I principali concetti della filosofia morale sono introdotti in modo naturale, semplice, colloquiale.
Questo accade quando si padroneggia in modo eccelso l’argomento.

Se in campo filosofico-morale-giuridico non possiamo ridurre una persona alla sua colpa (esiste la redenzione/riabilitazione oltre al suo essere nella sua interezza), allo stesso modo in campo filosofico-morale-medico non possiamo ridurre una persona alla sua malattia.

I movimenti delle medicine non convenzionali sorti a partire dagli anni Sessanta avevano, tuttavia, una inversione di tendenza a cui una parte della medicina, oggi, sta guardando con interesse: l’approccio olistico; il vedere la persona nel suo insieme e non più soltanto un organo, non più soltanto un mero oggetto sconnesso dal resto, ma un soggetto autodeterminato.

Mi viene da pensare alla serie televisiva Star Trek che, negli anni Sessanta, appunto, introduceva, in quel futuro ipotizzato, un concetto di medicina più olistico che specialistico.

Da bravo filosofo morale, l’autore ci fornisce, sul tema, un aiuto preso a prestito dall’epistemologia dicendoci che la prospettiva della scienza biomedica è stata quella dello “spiegare” che è cosa essenzialmente diversa dal “comprendere”.

La spiegazione implica una presa di distanza dall’oggetto che indaga.

Il corpo-soggetto (non più oggetto) non si spiega ma si comprende perché la comprensione è un conoscere dall’interno.

Per me queste parole sono state un tuffo al cuore e la mia mente è volata alle lezioni di filosofia di moltissimi anni fa con il Prof. Adriano Fabris che dava anche una definizione etimologica dello spiegare (“togliere le pieghe”), vedendo la comprensione più inclusiva.

Ed ecco che l’autore introduce, finalmente to care contrapposto a to cure perché, ci avverte, “Finché la medicina si arresta all’ottica dello “spiegare” essa è in grado di curare (in inglese to cure), ovvero di intervenire sulla malattia tramite un approccio di tipo tecnico”.

Infatti, dopo, aggiunge: “Cresce lo spazio che la malattia occupa nella nostra vita, mentre diminuiscono le risorse di cui dispone la coscienza del singolo per vivere la malattia e per integrarla nel disegno complessivo della sua vita. Ecco perché è necessario integrare la prospettiva del curare, inteso in senso tecnico-specialistico (to cure), con il prendersi cura (inglese to care), inteso in senso umanistico. Questa integrazione del curare con il prendersi cura è fondamentale quando la malattia diventa incurabile; anzi, in questi casi il prendersi cura può diventare l’unica cosa da fare, l’unica cosa che si può ancora fare”.

Il cambio di paradigma è notevole perché incentrare la medicina sul paziente nella sua interezza e non solo sul suo corpo o su una singola parte di esso, significa avere rispetto per la sua dignità di persona.

L’empatia è essenziale, ricorda il prendersi cura della madre che non ha bisogno del linguaggio verbale con il suo neonato perché entrambi utilizzano ben altri e più diretti linguaggi. Sono in connessione.

L’autore avverte di mettere, tuttavia, un argine alle metafore di carattere materno in ambito lavorativo-infermieristico perché il rischio è il burn-out, mentre l’opposto è il cinismo e la disumanità, atteggiamenti in contraddizione con le professioni di cura.

Si esplora la malattia come crisi, separazione, fino a giungere al profondo concetto di “essere vivi fino alla morte”.

Non manca nulla, dalla parola come rimedio e cura si arriva anche ai casi in cui non ci sono più le parole e si è in condizione di vulnerabilità estrema e si ritorna, nuovamente, all’immagine simbolica di madre-neonato.

La seconda parte del saggio, quella sui limiti, si apre con la modernità e il principio di autonomia ricordando la celebre espressione di Kant su cosa è l’Illuminismo e che si richiama, appunto, al concetto di autonomia.

L’autonomia in medicina, ad esempio, prevede l’abbondano di quella che era stata una visione prettamente paternalistica e un’etica dei medici per passare all’etica medica.

L’autonomia in medicina è necessaria all’umanizzazione della medicina stessa e che si sta auspicando nel saggio.

Anche l’autonomia ha dei limiti e uno di essi è la concezione individualistica dell’autonomia presente in alcune prospettive della bioetica.

Un secondo limite è rappresentato da un eccessivo sbilanciamento sul piano cognitivo, come se non avesse più dignità chi, a causa di qualche malattia psico-invalidante, non potesse più disporre di tale autonomia. Si tratta, pertanto, di mettere in discussione un’autonomia viziata da una ipertrofia cognitiva.

A ben pensare, è il modo prettamente occidentale di porsi nei confronti di animali e bambini, considerati meno abili cognitivamente; e anche se lo fossero (e non lo sono) non sarebbe certo quello il punto perché non esiste solo il piano cognitivo.

Emblematico l’esempio dei malati di malattie neurodegenerative che non riconoscono la persona presentata mediante il linguaggio ma la riconoscono se questa persona prende loro la mano.

Si respira, nel libro, quella nostalgia descritta come “dolore del ritorno”, per un possibile ritorno alle auspicate condizioni che precedevano la malattia.

Egoisticamente, feci anch’io quell’errore comune che molti parenti e amici fanno dinanzi a una persona che sa di dover morire a breve, ovvero negare la cosa.

Quella persona ha già affrontato la rabbia del “perché proprio a me/perché io” (lo disse persino Gesù) e si sta preparando alla separazione, una separazione fatta di racconti volti a permanere con noi e nelle nostre narrazioni.

Quelle frasi di circostanza di parenti e amici non sono solo inutili, ma dannose persino.

Qui sono volutamente rimasta sul semplicistico dato il mio personale coinvolgimento, e rimando alle ben più capaci argomentazioni del libro la cui lettura è consigliata per molte ragioni e passioni.

Resta sveglio con me” è il motto dei volontari americani che si dedicano ad accompagnare i morenti; sveglio al capezzale è un atto di una potenza simbolica impressionante, è un dono dell’anima e all’anima come lo è questo libro.

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