L’età dell’oikocrazia. Il nuovo totalitarismo globale dei clan
Armao Fabio (Meltemi, 2020)
I neologismi, per definizione, sono parole nuove che entrano nell’uso comune dei parlanti di una lingua. Armao, autore di questo saggio edito da Meltemi ricorre all’invenzione di un neologismo per dargli un titolo, oikocrazia.
«Ci sono due modi per spegnere lo spirito di una civiltà: nel modello orwelliano la cultura diventa una prigione […] nel secondo modello, quello huxleiano, diventa farsa. Un mondo alla Orwell è molto più facile da riconoscere e da combattere che un mondo alla Huxley». Si apre così questa lettura, e, questa distinzione tra i due sistemi sarà il filo conduttore dello scorrere delle pagine. L’autore nella diffusione dell’oikocrazia intravede un nuovo totalitarismo condito dalla distopia di Orwell e quella di Huxley, basate su un’unica matrice clanica.
«Quasi senza accorgercene, stiamo producendo una società auto-immune, incapace di riconoscere i propri agenti patogeni e, di conseguenza, destinata a alimentare i propri mali, invece che debellarli».
Nonostante la civiltà occidentale rivendichi l’invenzione della democrazia, è proprio questo modello a essere oggi in crisi, perché è fallito il suo progetto di coniugare le procedure democratiche con i meccanismi dello Stato e dunque creare democrazie nel senso pieno del termine.
Studiare il nostro tempo, non potendo osservarlo da una prospettiva esterna e obiettiva, ma essendo immersi in esso, e nel divenire di processi e mutamenti, ci impedisce di coglierne appieno la complessità. Questo esercizio è tuttavia indispensabile se si vuole cogliere la natura del tempo in cui viviamo per divenire artefici della propria storia e non soltanto subirla.
Il saggio parte dalla constatazione che nel corso del tempo il potere degli Stati nazionali e delle istituzioni democratiche tradizionali stanno attraversando crisi di legittimità sempre più gravi. Il vuoto di potere creatosi è stato colmato in maniera capillare da altre forme di organizzazione sociale, tutte di tipo privato. Organizzazioni che esistevano da tempo, ma che hanno acquisito sempre maggiore rilievo assumendo su di sé alcune funzioni necessarie per la comunità, sottraendolo agli Stati che non potevano/volevano più fornire.
Da qui nasce l’esigenza di un termine per definire il fenomeno: oikocrazia, un neologismo che lega il termine greco kratos, potere, con oikos, la casa, il clan. Il clan non è solo identificato con la criminalità organizzata, ma anche in quanto struttura familistica di potere, nella politica, nell’economia e nelle élite finanziarie.
Il governo, assume il ruolo di un appaltatore, non elabora grandi progetti sociali, addirittura ritirandosi anche da settori cruciali quali la sanità, la previdenza, delegando tutto ai privati. Diviene un semplice mediatore tra le domande dei cittadini e le offerte del mercato.
Si assiste alla frammentazione delle comunità e al dissolvimento del collante sociale derivante dal senso di appartenenza nazionale.
Contemporaneamente cresce un gran lavorìo legislativo. Quando infatti non vige più alcuna consuetudine riconosciuta collettivamente cresce inevitabilmente il bisogno di creare leggi specifiche in tempi estremamente rapidi. A tali leggi gli appartenenti ai clan si sottraggono con crescente facilità. In questo clima non sorprende che sempre più spesso si faccia ricorso all’invocazione di uno stato di eccezione permanente che consenta di legittimare un aggiramento sistematico delle procedure che sono alla base della democrazia.
Che la sostanza del potere dei clan sia antidemocratica è denunciato a partire dal sottotitolo del libro: “Il nuovo totalitarismo globale dei clan”.
Tristemente nei Paesi occidentali, sebbene restino le forme e i riti della democrazia, che ancora cercano di legittimare e giustificare il potere nei confronti dei cittadini, grattando la superficie di questa democrazia non è rimasto nulla.
Superato lo sconforto che inevitabilmente coglie il lettore, rispecchiandosi nella realtà in cui si trova a vivere è consolato dall’offerta di una proposta di via d’uscita dell’autore: «immaginare nuove forme di governance dello spazio urbano, volte a promuovere l’inclusione sociale e favorire la costruzione di reti di resistenza in grado di opporsi, in particolare, alla mediazione sociale basata sul denaro e sulla violenza offerta con sempre maggior frequenza ed efficacia dai clan criminali».
Una proposta forse utopistica, ma che pone alla base del percorso l’educazione: «bisogna cominciare a investire risorse soprattutto nella democratizzazione, intesa come processo educativo rivolto ai singoli cittadini, prima ancora di preoccuparsi di riformare le istituzioni, siano esse locali e nazionali». Il suggerimeno di Armao sembra essere la creazione di un sistema scolastico o un percorso formativo che renda i cittadini capaci di interpretare le complessità del reale e che si possa opporre nel lungo termine alle tendenze centrifughe egoistiche dei clan. Resta poco chiaro quale dovrebbe essere il soggetto politico in grado di attuare questi processi formativi.
Probabilmente l’utopia si spinge oltre immaginando una presa di coscienza collettiva capace di tradursi in iniziativa politica efficace. Lo Stato è sicuramente complice della sua trasformazione, ma forse la retorica che lo vorrebbe superato dalla storia è parte di quella narrazione volta a delegittimarne il ruolo politico, sociale ed economico che oggi sarebbe più opportuno recuperare.
Fabio Armao, è docente di Relazioni internazionali a Torino e uno dei massimi esperti italiani di criminalità organizzata.
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