Recensione: “L’asino morto” – L’ironia della mala-sorte
L’Asino Morto di Jules Janin, edito da Marietti 1820, è un bizzarro e feroce romanzo dell’ottocento francese.
La prosa elegante, la padronanza della parola, sono al servizio di un germoglio tossico del Romanticismo esasperato, macabro. Germoglio che superata ogni soglia di succulenta maturazione, esploderà spargendo il suo sentore decomposto.
Il libro inedito in Italia fino al 2015, è uno scritto affabulante con un preciso intento derisorio nei confronti del cosiddetto “frenetisme”, tentacolo estremo di quella inclinazione mentale che trascinerà l’idealismo romantico verso le acque malsane e torbide del Decadentismo.
Il testo, procede per parentesi e immagini, che nell’intento ironiche, restituiscono uno spaccato del piccolo mondo parigino dell’epoca. L’autore coglie aspetti grotteschi di una quotidianità straziante, le cui personificazioni ci fanno sì sorridere, ma sempre con una piega amara sulle labbra e una certa afflizione. Nel libro Janin si pone da un punto di vista tutto speciale, laterale, usa i suoi occhi intelligenti e il suo scrivere sopraffino per cogliere il paradosso nei brandelli di vita cui di solito la maggior parte delle persone non fa attenzione. E siccome lo ha fatto in un modo che tra le altre cose invita al sorriso, quella che mette in scena sembra essere “l’ironia della sorte”.
O meglio ancora, “l’ironia della malasorte”…
Puzzolenti marciumi che si tramutano in succulenti manicaretti e viceversa.
La storia ha inizio e fine con Henriette e Charlot, una contadinella di florida bellezza e il suo splendido asinello.
Fin dal primo incontro con i due personaggi, in controluce, un lettore attento potrebbe già intuire il tragico destino che dalle campagne francesi condurrà la giovane contadina al patibolo e il suo fido asino al macello.
Ed eccola qui l’ironia della malasorte una fanciulla accompagnata da un asino di nome Charlot, che è anche il nomignolo usato in certi ambienti parigini per indicare il boia.
l’ironia della sorte è quella del libro stesso che nato per deridere un genere ne diviene un testo di riferimento ai posteri.
A noi arriva nella traduzione sapiente di Giorgio Leonardi, che depurata la parola dal superfluo ottocentesco ne tramanda intatta tutta l’atmosfera intenzionale, la maestria della costruzione della struttura narrativa e del paradosso.
Janin era un autore scomodo, critico feroce, le sue pagine non fanno ridere a crepapelle, per capirle devi fermarti a riflettere. Il riso che viene dall’ironia raramente è catartico. Non libera gli istinti e non svuota l’animo. Anzi, increspa appena un angolo della bocca e a volte lascia un retrogusto amaro, apre la porta a sentimenti e intuizioni che volentieri avremmo lasciato strisciare nel fondo melmoso del nostro più cupo sentire. E invece, con un sorriso storto, ce li troviamo di fronte, faccia a faccia, ci mettono in allerta.
Ma Janin non mette solo in ridicolo i suoi soggetti, in qualche modo si fa anche carico della loro sofferenza, dei retroscena della loro umanità. In questo senso l’umorismo diviene medicamento e cura dell’umanità dei suoi personaggi.
Ed ecco che, come nel gioco delle tre carte, l’ironia mostra proprio ciò che pareva più reticente ad accettare. L’ironia nega, senza contraddizioni, nega spietatamente. Ma proprio laddove nega, essa trova la prova inconfutabile dell’esistenza di ciò che mette alla berlina.
E il testo in più parti gronda e svela più di quanto intendesse farlo.
La visione obliqua dell’autore/narratore permette di cogliere aspetti inattesi e in maniera del tutto inconscia mette in mostra spietatamente dinamiche storiche e sociali del tempo. Come un vapore purulento emerge il rapporto impari tra femminile e maschile dell’epoca. Quello che ne vien fuori è un mondo maschile che non percepisce la propria relatività nei confronti del femminile, mentre il femminile è consapevole della dualità.
Per questo le donne del libro diventano motore di meccanismi sociali fondamentali proprio attraverso l’estraneazione, il percepire se stesse come sfavorite. Si muovono nel sottobosco, e pur sottoposte a una sorta di voyeurismo macrabo, si nascondono allo sguardo diretto, si mostrano sotto false spoglie.
La donna è costretta a ripensare il suo essere nel mondo in maniera autonoma senza potersi rifare a schemi consolidati, perché questi sono creati non per lei, ma da una logica maschile che le è estranea e che non la considera. Quegli schemi non sono salvifici, non aiutano, anzi, sono prigioni. La donna sa che ripensare ex novo l’essere nel mondo è ciò di cui ha bisogno.
Da questo bisogno prende il via la progressiva corruzione dell’animo di Henriette. Corruzione a cui il narratore assiste senza muovere un dito, intento piuttosto a farne inventario, allo stesso modo fa un sarcastico inventario di personaggi strambi, di vite bizzarre, di esperienze legate alla morte e allo scampare da essa. Un vero e proprio bestiario umano, un “trattato di abiezione morale”, così si intitola l’ottavo capitolo, dove la vetta più alta spetta a colui che professa il mestiere del “censore”!
“e ho visto anche un censore salire sulla sua personale forca per amputare senza pietà un pensiero umano, (…) non ho visto nulla di più orribile di un censore, in mezzo a tutte queste immondizie sociali”.
E noi lettori? Che ne è di noi? Noi siamo tutti quei passanti sulla strada per Vanves che porta alla Locanda del Buon Coniglio, dove una fanciulla procedeva allegamente in groppa ad un asino. A noi Janin ha fatto un grande regalo, permettendoci di guardare, noi davvero non visti, quello che uomini e donne fanno, quello che noi stessi avremmo fatto, forse, in quel tempo, al posto loro.