Recensione: “La questione comunista. Storia e futuro di un’idea” – Una lucida critica ironica
“La questione comunista. Storia e futuro di un’idea”
di Domenico Losurdo
Curatore: Giorgio Grimaldi
Editore: Carocci editore,
collana “Quality Paperbacks”
“Proletari di tutti i paesi, perdonatemi”.
Questa frase sembrava annunciare il fallimento del comunismo e tale era il sentore nel 1989. La frase citata è un richiamo a una vignetta, ormai quasi introvabile, che circolava intorno al 1989; con essa inizia la premessa del grandissimo filosofo Domenico Losurdo a questa sua pubblicazione postuma, mirabilmente raccolta grazie alla volontà e all’impegno di Giorgio Grimaldi.
Si può quasi percepire il dialogo tra i due, come si percepisce e si è rapiti dai continui dialoghi con i vari intellettuali citati da Losurdo, il quale, di ognuno, evidenzia sia le intuizioni che i limiti.
Come dal titolo, il libro parla della questione comunista nel corso della storia. Usa, non a caso, il termine “questione” perché tratta anche le varie percezioni che se ne sono avute e gli aggettivi utilizzati per inquadrarlo in categorie formali.
Si avvale anche di continui confronti, sia con il liberalismo che con l’Occidente in generale per analizzare, a volte anche con ironia, il differente trattamento e la differente percezione riservata al comunismo.
Gli esempi adottati sono tutti concreti e puntuali.
È un libro che richiede meditazione e molte elaborazioni successive (e anche tempi lunghi, meditati di lettura e conditi da varie pause riflessive) proprio in virtù delle varie voci analizzate e di altre voci che analizzano quelle voci, in un confronto continuo e stimolante in cui il lettore è rapito
ed è contento di lasciarsi rapire.
Perché? Non solo per la scrittura limpida, per la lucidità di analisi e per l’incredibile onestà intellettuale, c’è di più: al saggio non manca una dote più unica che rara, l’ironia! Un’ironia che scandaglia, smaschera, mostra, indica. La sua non è un’apologia del comunismo; è, semmai, una critica lucida alla secolare narrazione occidentale al riguardo.
Queste narrazioni sono analizzate e scandagliate, una per una, mostrando i due pesi e due misure con gli stessi termini utilizzati per la narrazione/autoassoluzione che l’Occidente ha sempre fatto, e continua a fare, nei propri riguardi. Come termine, non si può non partire dal totalitarismo, vedendone gli albori molto più indietro nel tempo rispetto a quando siamo abituati a fare.
Si parte da un aggettivo che, dal 1914, comincia a risuonare: “totale”. Si parla di “mobilitazione totale”, “politica totale”, “guerra totale”.
Dall’aggettivo si passa poi al sostantivo “totalismo” e poi “totalitarismo”. La partenza con queste considerazioni è per ricordare che il movimento comunista si costituisce proprio nel corso della lotta contro la Prima guerra mondiale, conseguenza di quel “totale” applicato a ogni ambito.
Per questo, nel saggio ci si chiede quanto possa essere “indicibile” la parola comunismo alla luce di ben altre parole che meriterebbero, e con ragione, quel termine e che ne sono, invece, al riparo in virtù di una consolidata narrazione occidentale tesa all’autoassoluzione.
Per questo si parla anche del termine “liberalismo” declinato nelle sue varie accezioni e si aggiunge, con esempio storico, quanto sia stato, invece, “indicibile” in un determinato contesto e periodo.
Tocqueville, Schlesinger, Arendt, Mill, Proudhon, Roussseau, Žižek, Spengler, Shelling, Saint-Simon, Hegel, Burke, Caillé, Badious…sono solo alcuni dei molti nomi, dei molti studiosi messi in relazione e in continuo dialogo a distanza spazio-temporale, eppure sempre attuali, per vedere, assieme a loro, l’evolversi di certi termini e l’accezione con cui sono stati utilizzati.
Per questo, con lucidità estrema e con ironia, il lettore è portato, maieuticamente, a comprendere quanto molte considerazioni fatte passare per “natura”, siano in realtà “cultura” e spesso una cultura socialmente ingiusta a cui, il comunismo, sin dalle origini, ha cercato di porre fine,
smascherando queste categorie formali.
Persino il termine “ribelle” non è risparmiato perché non possiede una portata “rivoluzionaria”. Sono mostrati tutti i rischi dei discorsi più o meno religiosi, di una realizzazione progettuale futura, di una sorta di “paradiso”, di una promessa di realizzazione nel futuro.
Utopia, utopia capovolta (o rovesciata, distopia), utopia realizzata, restano, tuttavia, i termini chiave per entrare nel mondo e nel modus operandi di uno studioso come Losurdo e per comprendere sino in fondo questo saggio in continuo dialogo con molte voci antiche e nuove.
Perché è partendo dalle utopie, realizzate o come tendere verso, che si arriva a dire, del comunismo, che: “esso è da intendere non come “uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi”, bensì come il movimento reale che supera lo stato di cose presente”.
Una duplice definizione che ricalca il differente modo di porsi rispetto al “comunismo”.
Bellissima la metafora di cui si avvale Losurdo stesso:
“La vicenda di Cristoforo Colombo, che parte alla ricerca delle Indie ma scopre l’America, può servire da metafora per comprendere la dialettica oggettiva dei processi rivoluzionari”.
Nella sfasatura tra progetto soggettivo e risultato oggettivo ne vanno viste, con Losurdo, con Marx e con Engles, le ragioni e la necessaria manifestazione. Perché, come cita il motto della collana della casa editrice di questo illuminante saggio in dialogo, questi scritti sono “per chi ritiene che nella vita non si smette mai di imparare”.
E magari, in una prossima vignetta, con eco diversa da quella circolante nel 1989, leggeremo: “Proletari di tutti i paesi, non dimenticatemi”.