Recensione: “La maledizione della vedova”. L’Irlanda tra tradizione e modernità
“E poiché la guerra la aveva tolto
Tutti e otto i suoi uomini ella decise che nessun uomo avrebbe mai ucciso da solo: altri sette sarebbero sempre stati al suo fianco perché la memoria del lutto non morisse anch’essa”
Tratto da “La maledizione della vedova del contadino”.
Questo è “La MALEDIZIONE della VEDOVA” di Ruth Gilligan (Francesco Brioschi Editori), nata a Dublino nel 1988, laureata in letteratura inglese e oggi insegnante di Scrittura Creativa all’Università di Birmingham.
Irlanda. 1996. Divisa tra chi è ancora fortemente attaccato alle tradizioni e chi brama un futuro moderno, la popolazione si appresta ad affrontare la diffusione del “morbo della mucca pazza”.
“Ormai erano rimasti in meno di cinquecento, in tutto il Paese, a rispettare quella tradizione e a temere l’antica maledizione della vedova del contadino. Era senz’altro più facile come in molti altri casi, lasciar morire quelle usanze con lo scorrere del tempo: l’Irlanda si sarebbe buttata il passato alle spalle mettendosi al passo con il resto del mondo. Ma era davvero credibile un’Irlanda senza folklore e tradizioni? Poteva davvero diventare come l’Inghilterra, la Francia o qualsiasi altra nazione (al di là della pioggia incessante)?”
La storia raccontata da Ruth Gilligan ruota attorno al dilemma “tradizione/modernità” ed è articolata su due livelli temporali differenti: il 1996, periodo principale della narrazione ed il 2018 in cui si raggiunge la sintesi di quanto lasciato incompiuto nel ’96. Anche l’ambientazione è diversa, si passa dall’Irlanda del primo periodo a New York per l’epilogo.
Stabilire un protagonista indiscusso della storia è, a mio avviso, scorretto nei confronti dei vari personaggi poiché ogni capitolo del romanzo è dedicato a uno di loro, che narra le vicende dal proprio punto di vista, dal proprio modo di “sentire interiore”, racconta dei propri sogni, errori, debolezze. Ogni personaggio è protagonista del suo capitolo, anche se le vite di tutti sono intrecciate tra loro, direttamente o indirettamente e l’evolversi degli eventi è il medesimo. Solo due, però, si ritrovano nel 2018 per la resa dei conti, per porre fine a un’ingiustizia, una violazione perpetrata nel 1996.
“Mentre la guardava trascinarsi lungo il corridoio, ormai accartocciata su sé stessa, Una ripensò alle forbici e poi, ancora meglio, al coltello grosso con il taglio seghettato. E giurò che se avesse mai scoperto chi aveva fatto quelle cose a Sol, e causato una sofferenza così atroce a quella donna meravigliosa, gliela avrebbe fatta pagare in tutti i modi possibili.”
Il romanzo, scritto con lessico chiaro e dialettica semplice, è fortemente introspettivo. Al di là della narrazione dei fatti in sé per sé, Ruth Gilligan entra nell’intimo più profondo di ogni personaggio tirando fuori le verità nascoste in cui si può riconoscere ciascuno di noi in base alla propria anima e a come ha deciso di vivere la propria vita.
C’è, inoltre, un mistero da svelare, una morte sospetta che lascia dell’amaro in bocca e ci sono le credenze popolari, come quella della maledizione della vedova del contadino, che riescono a sopravvivere adeguandosi alle necessità.
“Il mito dice che nessun uomo può uccidere da solo […] ma non dice nulla a proposito delle donne […] Loro dimenticano che ne sappiamo più noi della morte perché siamo noi a dare la vita […] Ne sappiamo più noi del sangue di quanto potranno mai sapere loro”.