Recensione: IO? – Un morto parla per bocca mia
“IO?”
di Peter Flamm
Adelphi Edizioini
E’ possibile sottrarsi alla tentazione di addentrarsi nella lettura di un romanzo con un titolo così lapidario come questo? Un titolo che nell’originale tedesco (“Ich?”) suona come un breve e secco colpo di frusta? La risposta è: no, non ci si può sottrarre. Né ci si può sottrarre all’obbligo di ringraziare l’editrice Adelphi e la bravissima traduttrice Margherita Belardetti per aver offerto al lettore italiano l’opportunità di godersi un gioiellino letterario abbandonato nel dimenticatoio da quasi un secolo.
Peter Flamm è lo pseudonimo di Erich Mosse, stimato psichiatra tedesco nato a Berlino nel 1891 da una famiglia della grande borghesia ebraica, costretto nel 1933 a sfuggire alla stretta razziale del regime nazista emigrando a Parigi, e di lì a New York.
“Ich?” è il primo romanzo scritto da Peter Flamm, pubblicato verso la metà degli anni Venti del secolo scorso. Romanzo che gli valse un immediato successo e una consacrazione unanime da parte sia della critica che della platea dei lettori. Successo e consacrazione ben presto però appannati e svaniti come neve al sole nonostante la successiva pubblicazione di altri tre romanzi. Di Erich Mosse, alias Peter Flamm, si era così persa ogni traccia, fino alla recentissima ripubblicazione di “Ich?” in lingua tedesca (2023), della quale quella di Adelphi (grazie, ripetiamo, al prezioso lavoro di traduzione di Margherita Belardetti) costituisce la prima e (sino ad ora) unica traduzione a livello mondiale.
“Non io, signori giudici, un morto parla per bocca mia. Non sono io qui, non è mio questo braccio che si alza, non sono miei questi capelli ora bianchi, non è mio il crimine, non è mio il crimine”.
Questo è l’incipt. E con questo incipit folgorante Peter Flamm consegna il lettore alla guida di un uomo che sta evidentemente difendendosi in un processo, e che si difende dichiarandosi morto, che afferma di essere estraneo non solo al crimine di cui lo si accusa, ma addirittura estraneo a se stesso, al corpo che si anima e parla apparentemente a suo nome.
E, dal folgorante incipit sino alla fine del breve romanzo (123 pagine che si bevono con un solo lungo sorso), come in una soggettiva cinematografica, il lettore si trova a rivivere la vicenda che ha portato il protagonista ad assumere l’identità di un’altra persona e a vivere questa sostituzione sul fragile e pericoloso crinale della dissociazione mentale, della menzogna, dei sensi di colpa e, infine, della pazzia.
La prima e sanguinosa guerra mondiale si è conclusa da poche ore (siamo nel 1918) e il soldato Wilhelm Bettuch, in tempo di pace umile fornaio di Francoforte, vagando tra le trincee e il campo di battaglia di Verdun crivellato dalle bombe e disseminato di cadaveri, inciampa nel corpo privo di vita di un commilitone, al quale, d’istinto, senza nemmeno pensarci, sottrae il passaporto, ritrovandosi così su un treno che lo porta a Berlino, nella casa del cadavere a cui ha sottratto il passaporto, lo stimato e ricco chirurgo Hans Stern. E nella sua nuova identità “rubata” viene riconosciuto e accolto con amore dalla moglie Grete (ma non dal cane Nerone che, come un Argo di Ulisse al contrario, lo accoglie ringhiando).
Il sosia del dottor Stern assapora così l’agio di una nuova vita, l’amore di una donna che lo ha riconosciuto come suo marito, l’esercizio di una professione che non conosce e che lo affascina, lui che viene dall’umile mestiere di panificatore.
Ma presto sorge il dubbio: chi parla e riflette e constata e si avventura nella vita di un altro, è davvero l’umile fornaio di Francoforte, ladro di passaporti e di identità? O non piuttosto il vero dottor Hans Stern, che in battaglia ha subito un trauma che gli ha sconvolto la psiche e non riconosce ma è riconosciuto? Ma allora perché il cane Nerone, dotato come tutti gli animali di un istinto infallibile, non lo ha riconosciuto? E perché Wilhelm Bettuch/Hans Stern ogni tanto deve fare i conti con i fantasmi del suo mestiere e delle sue relazioni di fornaio, fino a trovarsi, come dottor Stern, nelle vesti di perito in un processo a carico di Emma Bettuch, sorella del fornaio Bettuch accusata di un delitto?
Così il lettore, dopo poche pagine, si trova a un bivio (il “punto cieco” teorizzato da Javier Cercas nell’omonimo saggio sul romanzo moderno) e viene abbandonato dall’autore a una lettura piena di enigmi e incertezze, di fronte a un rebus quasi impossibile da risolvere, costretto a scegliere la via della sostituzione di identità (chi parla dunque è l’umile fornaio Bettuch), oppure quella dello smarrimento di identità e di memoria (chi parla è lo stimato chirurgo Stern), e a tornare indietro per imboccare la strada interpretativa che ha abbandonato poche pagine prima, in una ricerca della rotta giusta che si arenerà
irrisolta all’ultimo punto fermo dell’ultima riga dell’ultima pagina del libro.
L’unica certezza acquisita dal lettore sarà quella di aver camminato per tutto il tempo nella melma della follia. O meglio ancora: l’unica certezza, come affermato dallo stesso imputato Bettuch/Stern alla fine della sua lunga difesa davanti a chi lo sta giudicando, è costituita dal passaporto che ha trafugato e con cui si è ripresentato al mondo civile dall’inferno di Verdun. “…sì, devo averlo qui con me”, grida appassionatamente ai propri giudici, “è qui nella tasca, qui nella giacca, sopra il cuore, cosa volete farvene, perché non mi credete?, eccolo qui, prendetelo, è l’unica cosa che posso ancora dare …”.
Dimenticavo un particolare non trascurabile: la prosa di Flamm, corredata da una punteggiatura schizofrenica che rende magnificamente il tormento di Bettuch/Stern, è semplicemente sublime.
Buonissima lettura.