Recensione: “Il recinto”, microracconti d’amore per il Giappone
“Mi accadde questo. E quest’altro ancora”. Ne Il recinto – Sguardi e riflessioni sul Giappone (OXP Edizioni) va in rewind la ghiandola pineale di Mavilio, mentre allaga le pagine della sua opera prima. Indaga continuamente la sua natura complicata e mette, mette, mette. Scavando nei suoi ricordi a piccoli, precisi tocchi di cutter, e impilandoli gli uni sugli altri.
Tanti sono i fotogrammi di quel suo primo frammento di vita prima del “recinto”. Quanti quelli del film di Ozu Yasuijjro, Il gusto del sake, visto per caso su Rai tre in lingua originale, casualità da cui è divampato il suo amore inaspettato per il Giappone. Da questa decina di pagine iniziali e da quelle finali dell’epilogo, in cui infanzia e maturità chiudono per un attimo il cerchio, da questo “esercizio di metafisica sentimentale” parte una visione personale del Giappone, stratificata lentamente sulla memoria e sulla consapevolezza di sé come emanazione di un inconsapevole patrimonio genetico.
Il sogno: imparare il giapponese da autodidatta. Il sogno più grande: vivere in Giappone. Qualcosa giace accanto alle parole progressivamente “svuotate” del senso originario, impilate sul tavolo al centro della stanza. Un abbozzo di linguaggio, una zolla secca, un pasto primitivo e arrugginito. Lì, nell’angolo. Non è un estratto di dialoghi reali di senso compiuto, eppure, a suo modo, viene dal profondo. E da lontano.
-Furo arucanà?
-Chioua uacasanacatta.
-Soccà.
Come in una fiaba popolare, il Giappone è un tesoro da trovare, partorito dalla volontà dell’eroe. Non è un pregiato oggetto incastonato, ma un semplice oggetto memoriale. Nudo tachimetro della sensibilità, testimone di una tenera rusticitas già altrove rivendicata, con quel pudore velato di ironia proprio dell’autore.
Scrittore naif ma non istintivo, dietro il fanciullo si arrovella sul pensiero lungo alla Gurdjieff, quello che rende praticabile l’impraticabile. Un atto che lascia dietro di sé scorie, producendo un racconto “drammaticamente residuale”, molto più di quanto sia “norma”.
Marvilio scrive di sè. Abbozzi e frammenti autobiografici. I piccoli passaggi che lo hanno portato a vivere in un paese tanto agognato e tanto differente. Niente di eclatante, pochissimo di simbolico e, contro la congiura delle apparenze, niente di fatalistico. Mentre la usa, la storia non è più la sua storia. L’atmosfera, la forza delle immagini, gli sguardi del lettore la rendono altro. Sarebbe stato un bel mood in cui cristallizzarsi: la fatalità, un comodo cliché. Soprattutto per un napoletano, prodotto di una Urbs in cui ogni tanto le ampolle si sciolgono, le pietre trasudano.
Invece, in Giappone, Mavilio ci arriva per gradi, con affanno, affronta la burocrazia, va in affitto, inizia a lavorare e a integrarsi.
Cosa resta, del racconto di Mavilio? Di quella sua presenza nel Recinto?
Resta l’affannarsi con la macchina da scrivere sulla carta, carezza abrasiva che rivergina. Resta, ed è ancora tutto lì, il tempo trascorso su quel primo film sezionato e raschiato, il fiato della fatica mescolato alle ombre della pellicola, insieme alla polvere, i vicoli, i portieri, i mille passi su un tracciato di blocchetti di quarzo delle viuzze napoletane, e a tutti gli odori, i silenzi e i respiri del Giappone. Asportati e impastati.
Perché la vita è una pepita di impasto grezzo, lì sul tavolo dei ricordi, è una meringa. E le meringhe possono essere tuberi sgraziati, mostri di cibo fatti di zucchero, chiara d’uovo, sale e ricordi grattati via. La ricetta è poco rassicurante, commuovendosi davanti alla foto della propria vita passata, si vorrebbe sfilarsi dal cuore le parole non dette.
Ottuplice recinto di pianura di canne: il Giappone.
Impossibile sintetizzare o riassumere la miriade di microracconti che compongono il volume, a volte solo suggeriti, aspirati o forse immaginati dal lettore stesso.
Quello che resta ti si incolla dentro, la sensazione di aver sfiorato per un attimo la guancia dell’autore in una carezza consolatoria e grata.
Il testo è un significante dunque, disarmonico rispetto al significato, come un disturbo nel rumore bianco dell’insieme. La goccia che fa traboccare la politezza del registro stilistico, è forse l’incursione gratuita e saltuaria nel mondo partenopeo, stridente e nugatoria, è la chiave più ambigua e sincera di tutto il volume.
Cosa resta, del testo dell’autore?
Resta, come nella favola di Eco e Narciso, lo iato di un racconto alienato e disperso. Restano le ossa di un foglio bianco, calcificato dal tempo. Resta, nell’addizione razionale dei fotogrammi e dei microracconti, microflussi interiori, il lago placido e insieme insidioso dell’irresolutezza, dove inabissarsi scivolando sul fianco.
Cosa resta del testo?
Resta la possibilità, la possibilità aperta del gesto nel ritaglio solitario ed autistico delle frazioni in cui lui, Mavilio, ricapitola la propria vita fino a quel momento che ne prevede un altro. Una piccola surrealtà, senza importanza, senza peso.
“Marcai visita”.
Poi, come accade, si arriva all’ultima pagina, lo scrittore se n’è andato. S’è addossato alla copertina, a guardarsi leggere. E quella goffa meringa è lì da sola, aspettando che qualcuno la faccia cadere. O che se la porti via, prima che si sgretoli.
Alessandro W. Mavilio, orientalista, scrittore, cineasta. Laureato in Lingua e Letteratura giapponese presso l’Università “L’Orientale” di Napoli, ha insegnato per più di un decennio all’Università Industriale di Kyoto. Nell’àmbito del progetto “Taoist Movies” è autore anche di numerosi cortometraggi sperimentali girati in Giappone.