Recensione : IL PIÙ GRANDE CRIMINALE DI ROMA È STATO AMICO MIO – L’amicizia, l’amore, la criminalità, la verità che rende liberi, anche se è necessaria una vita intera per scoprirla
“Creare non è uno dei soliti giochetti un tantino frivoli. Il creatore s’è impegnato in un’avventura terrificante che consiste nell’assumersi egli stesso, sino in fondo, i pericoli corsi dalle sue creature”.
JEAN GENET
Questo è “IL PIÙ GRANDE CRIMINALE DI ROMA È STATO AMICO MIO” (Edizioni BOMPIANI) di Aurelio Picca, nato ai Castelli Romani, scrittore di arte, letteratura, cinema e cronaca per le più importanti testate nazionali. Tutt’ora collabora al “Corriere della Sera”, “La Lettura”, “Il Foglio”, “Il Giornale” e “La Repubblica”.
La Vita di Laudovino De Sanctis, efferato esponente della criminalità organizzata romana, autore di sette omicidi, quattro sequestri di persona, undici condanne definitive e due fughe dal carcere, raccontata da Alfredo Braschi in un turbinio di ricordi, atti processuali e lugubrazioni su come sarebbero potute andare le cose se “Lallo lo Zoppo” fosse stato sempre presente.
Alfredo si ritrova ad un certo punto della sua vita con una sola cosa rimasta incompiuta e che non gli dà pace: trovare ed uccidere colui che ha fatto del male alla sua piccola Monique, la sua bambina di cinque anni meno un mese.
“E’ un anno scarso che voglio a ogni costo trovare l’uomo nero che l’ha sfregiata. E ammazzarlo come un cane. Qui nell’acqua di questo lago maledetto…. In questi anni di lei mi è rimasta nelle orecchie la Ninna Nanna che io stesso le avevo insegnato…. Ninna Nanna, ninna oh, questa bimba a chi la do? Se la do all’uomo nero se la tiene un anno intero…”
L’immenso dolore per la perdita della figlia lo porta a ripercorrere tutto dall’inizio, da quando da ragazzo aveva conosciuto Laudovino De Sanctis e ne era rimasto letteralmente folgorato, facendone la sua priorità anche più della famiglia.
“Seppi dopo un po’ che l’uomo era Laudovino De Sanctis, nato il 16 novembre a Collepardo. Aveva trentotto anni. Poteva essere mio padre. Invece era un grande rapinatore di Roma. Sarebbe diventato il bandito e criminale più feroce mai esistito. Quella sera non sapevo nulla di lui. Ma ne rimasi folgorato.”
E così, attraverso le parole di Alfredo Braschi, il lettore viene catapultato nella Roma criminale degli anni 70/80 fino ai giorni nostri, con descrizioni talmente vivide da poterla immaginare con le sue strade, i suoi locali, i cambiamenti avvenuti nel corso degli anni, ma pur sempre Roma.
“Sono le 18 e qualche minuto. Giornata umida, strana, come certe giornate romane che non trovano pace. Come se Roma non sapesse dove andare a vivere. Come se fosse un fantasma in collera con se stesso per aver abbandonato il corpo sulla terra. Come se Roma non trovasse una degna sepoltura al Verano o a Prima Porta”.
Allo stesso modo il Narratore ci porta dentro l’orrore dei crimini perpetrati da “Lallo lo Zoppo”, senza avarizia di particolari ed anche un po’ divertito perché né le cronache locali, ne coloro che avevano seguito le indagini avrebbero mai saputo come fossero andate realmente le cose.
“Quando rileggo gli articoli di giornale mi viene da sorridere amaro perché il giornalista racconta la cronaca senza sapere cosa c’è dietro, senza conoscere i veri nomi dei delinquenti. Sorrido perché la verità nuda e cruda non si scoprirà mai, neppure in corte d’assise. Nessun processo ricostruisce la verità.”
Il romanzo è molto forte, oscilla tra passato e presente, non c’è futuro, non c’è pace e non ci saranno finché non sarà svelato il nome di colui che ha oltraggiato la piccola Monique. Ricordare i crimini commessi da Chi ha rappresentato la cosa più vicina ad una figura paterna permette al Narratore di trovare in se stesso la giustificazione e la forza di commettere a sua volta il suo unico vero crimine ed avere finalmente giustizia.
Ma alla base di tutto, oltre le vivide descrizioni, oltre la crudezza del linguaggio, fatto di “frasi e parole che possono risultare difettose come le giacche fatte a mano dai sarti che devono mostrare l’imperfezione”, oltre la crudeltà degli eventi narrati, c’è l’amore di un padre per sua figlia, un amore che non dà pace.
“Ora sento di amarla. Ora che è morta la vorrei con me.
Ma una cosa l’ho capita: scrivere mi allenta la morsa dell’angoscia per mia figlia. Non mi fa contare le impronte di sangue. Pare che dalle parole esca gioia. E la gioia è lei, Monique, mia figlia. Amore di papà”.