Recensione: “Il grande libro della morte” – Vivere al bordo del limen
Ho sempre l’abitudine di girare con qualche libro, li porto con me ovunque, perfino al lavoro, dove dedico dieci minuti della pausa pranzo a qualche pagina.
Leggere è la mia boccata d’ossigeno e anche l’occasione per suggerire qualche lettura ai curiosi che mi chiedono cosa stia leggendo.
Il grande libro della morte di Ines Testoni, edito da Il Saggiatore, in particolare, è stato una specie di “pietra dello scandalo”.
È singolare il fatto che le reazioni, alla vista del libro, fossero tutte eccessive: chi mi guardava stranito, chi praticava gesti scaramantici, chi ripeteva con scherno il titolo del libro ad alta voce, chi si fingeva spaventato dal teschio dorato disegnato sulla copertina.
Il comune denominatore di tutte le reazioni era un misto di morbosità e repulsione, in pratica una corrispondenza perfetta con l’argomento trattato nel libro: l’atteggiamento degli esseri umani di fronte alla morte.
Il saggio della Testoni affronta il tema della morte in modo formalmente semplice, ma sostanzialmente impegnativo perché trattato valutandone ed esponendone in modo armonioso e mai prolisso, aspetti antropologici, storici, filosofici, sociologici e psicologici.
L’aspetto principale riguarda la disamina della percezione della morte nel corso del tempo, focalizzandosi in particolare sul fatto che sia diventato argomento tabù nei tempi moderni e sulla terribile bordata apportata dal Covid-19 rispetto a questa negazione esasperata ed esasperante, decisamente innaturale.
Il saggio segue un percorso storico preciso; ogni riferimento a riti tribali e miti è immediatamente posto a confronto con il contesto sociale e umano dell’epoca.
In quasi tutti quei contesti e ancora oggi in molte civiltà, specie quelle orientali, la morte era vissuta come un evento naturale e considerata una sorta di rito di passaggio.
Questo evento veniva “ritualizzato” per accompagnare il defunto e per confortare e contestualizzare nella realtà il concetto di perdita, inquadrandolo in una sorta di evento comunitario, decisamente confortante in quanto condiviso.
La partecipazione collettiva al dolore per la perdita e la celebrazione mistica sostenevano la persistenza di punto mediano tra la vita e la morte.
Il limen dunque, o terra di mezzo era quello spazio, giustamente celebrato, intercorrente tra il non esistere più del defunto e l’esistenza di chi gli soppravviveva.
L’evidenza e la permanenza di una linea di confine determinavano in qualche modo il senso della morte e quello di chi rimaneva in vita, affermando e sostenendo il concetto di imprevedibilità.
Con il passare del tempo, con la decadenza delle religioni e l’avvento di una società consumista e materialista, la morte è stata sempre più individuata come un concetto fastidioso da eliminare, concettualmente e teoricamente e con essa è scomparso anche quel delicato e umano concetto di limen.
La scienza e le tecnologie hanno migliorato qualità e aspettativa di vita e sono considerate una sorta di vero e proprio antidoto alla morte.
I rituali funebri sono ridotti a funzioni veloci e frugali, con pochissima partecipazione collettiva, come se la morte e un funerale fossero un’incombenza da sbrigare rapidamente per tornare alle proprie vite efficienti e da guardare di sfuggita, come se la morte riguardasse solo chi ha perduto un caro o colui che è scomparso.
Il Covid ha naturalmente ribaltato come un Cigno Nero ogni occultazione, riportando bruscamente ogni individuo della Terra di fronte al fatto che la scienza non è onnipotente e che la natura è in grado di soggiogare imprevedibilmente la vita dell’uomo.
Ciascuno di noi è stato cosi condotto giocoforza sui bordi di quel limen tanto respinto come idea e ha dovuto avvicinarsi suo malgrado al concetto di precarietà.
La pandemia ha però restituito a chi sa o saprà coglierne il senso, tanta bellezza: quella di chi consapevole della possibilità di morire, vive, al bordo del limen, pienamente e consapevolmente.
“Se noi vorremo accuratamente esaminare quello che noi proviamo, quel che passa nell’animo nostro, in occasion della morte di qualche nostro caro; troveremo che il pensiero che principalmente ci commuove, è questo: egli è stato, egli non è più, io non lo vedrò più. E qui ricorriamo colla mente le cose, le azioni, le abitudini, che sono passate tra il morto e noi; e il dir tra noi stessi: queste cose sono passate; non saranno mai più; ci fa piangere. Nel qual pianto e nei quali pensieri, ha luogo ancora e parte non piccola, un ritorno sopra noi medesimi, e un sentimento della nostra caducità (non però egoistico), che ci attrista dolcemente e c’intenerisce”.
Giacomo Leopardi, Zibaldone, 1817/32 (postumo 1898/1900)