Recensione: Getta il tuo pane – un intimo monologo
Getta il tuo pane
di Alice Rivaz
tradotto da Alberto Panaro
PaginaUno Editore
Ma perché è stato lui, quel grande autore, o lei, quella celebre romanziera, a scrivere queste righe, a pensare e reagire in questo modo? Non è esattamente quello che io provo, quello che io penso?
Ricordate quel film hollywoodiano di tanto tempo fa, con l’aitante soldato che scappa in Svizzera assieme alla bella infermiera? Fuggono dagli orrori di un’Europa in guerra col mondo e con se stessa, cercano uno spazio franco, dove poter vivere davvero.
A distanza di anni, la Svizzera è rimasta, anche per la letteratura contemporanea, una zona dove convergono gli spiriti migliori, che nel tempo hanno saputo mettersi a servizio di una storia semplice, onde creare buona letteratura.
Mirabile esempio ne è l’elvetica Alice Rivaz, col suo libro Getta il tuo pane (ed. Paginauno, 227 pp., 20€), opera del 1979, arrivata in Italia solo vent’anni dopo (uno solo, ahinoi, dopo la scomparsa dell’Autrice), quando già si erano imposte sul mercato nostrano scrittrici a lei molto simili come Bachmann, Jelinek, Lispector.
Allora perché questo libro?
Perché Paginauno, giovane e impegnata casa editrice, ce lo ripropone?
Non è un’operazione anacronistica?
Per darsi una risposta basta aprire il Getta il tuo pane a pagina uno, dove con un incipit fiume principia la vicenda di Christine (una che si ostina a credere che i baci sulla bocca siano il fine ultimo dell’amore) e del rapporto di questa con l’esistenza, le cose, le persone (soprattutto uomini, di tutti i tipi), sua madre, insomma: con gli appuntamenti che la vita ci pone innanzi, e che spesso ci colgono impreparati.
A questi appuntamenti, Christine oppone un’ostinata volontà di sottrarsi, e non utilizzando il metodo Bartleby (“no,grazie”), ma un altro, ben più doloroso e dilaniante: un giorno scriverà certo qualcosa. Convinzione delle più assurde, in effetti, se si pensa alla sua età e alla sua situazione personale, che non può che aggravarsi ulteriormente negli anni a venire. Assurda anche se si pensa che non le è capitato nulla di importante, di interessante, che valga la pena di essere detto; inoltre, confessalo Christine, tu non hai idee particolarmente originali su nulla […] All’età di 56 anni tu non sai neppure se credi o non credi in Dio, se la tua vita ha un senso oppure no e, se sì, quale. È vero? Sì, è vero, lo confesso. Lei lo confessa. Allora, perché nella sua materia grigia si è impressa questa convinzione ossia che tutto ciò che ha vissuto e sentito, che tutte le vite che la circondano, banali e prive di interesse apparente quanto la sua sono importanti per lei al punto di roderla da 25 anni dal desiderio di descriverle.
Il punto della vicenda, ciò che la fa splendere davvero, è il carattere scolpito della protagonista che è – a differenza della Malina di Bachmann o della signora Kohut made in Jelinek – una donna “come le altre”, priva di nevrosi o idiosincrasie “originali”, che si muove nei nostri medesimi emisferi; e che però non subisce la vita, come certi personaggi suoi colleghi, ma anzi ce la ripropone nella propria versione, o visione.
…quella donna chiamata Christine, oggi quasi una vecchia, e che a tutti gli effetti la sta diventando a breve scadenza – ma ancora così uguale a se stessa nella sua segreta e permanente identità, nonostante la maschera deformante, nonostante il travestimento deturpante che le ha imposto il tempo e che, ogni giorno di più, la ricoprono, l’avvolgono dalla testa ai piedi di un’apparenza menzognera alla quale nulla in lei corrisponde, ma dalla quale tutti si lasciano irretire, tranne lei che non si vede, eccetto che in quei brevi istanti in cui resta scettica, stupita, spaventata […] pronta a gridare all’impostura, senza sospettare fino a che punto, fra non molto, si riconoscerà ancor meno
È un lottare silenzioso, quello di Christine, simile più ai personaggi di Cassola, del verismo/naturalismo de noantri, che alle pose artistiche e/o cerebrali di tanta letteratura contemporanea (nordica, a volte molto nordica); si percepisce, quindi, pagina dopo pagina – anche se alla vicenda personale della protagonista, al suo monologo interiore, ci si accosta con una confidenza che mette i brividi – un importante alito universale.
Ecco perché, quando apriamo Getta il tuo pane di Alice Rivaz, non ci confrontiamo con una strana specie di epigono, ma col capostipite assoluto di una letteratura interiore contemporanea, che raccoglie l’eredità di Virginia Woolf, o del Joyce dei Dubliners, per dimostrarci non solo che Mrs.Dalloway o Eveline erano ancora vive e vivevano a Lugano (facendosi chiamare Christine); ma soprattutto che si può fare grande letteratura con piccole storie, piccoli ritratti di famiglia in un interno, senza cedere al sentimentalismo spicciolo, ma con qualità e afflato internazionale, medesimo afflato che ci guida in un territorio franco (quello della poesia in prosa), proprio come quell’aitante soldato, in quel bel film hollywoodiano di tanto tempo fa, conduceva la sua bella infermiera in fuga da un’ordinarietà terribile, tutta europea.
Che ora è? Ma che cosa importa l’ora? Comunque sia, è arrivato davvero il momento in cui non alzarsi diventerebbe da parte sua un abdicazione di fronte alla vita, e addirittura una rinuncia a tutti i suoi progetti, a ciò che lei ritiene la sua ragione di esistere.