Recensione: “Full Time – Al cento per cento”. La città inghiotte chi lavora
Sembra di respirare l’atmosfera di Ken Loach e invece siamo a Parigi. Proprio nella capitale francese è ambientato Full Time – Al cento per cento, il nuovo film di Éric Gravel, presentato a Venezia e nelle sale da domani, giovedì 31 marzo.
Seguiamo, nei poco più di 90 minuti del film, una settimana di vita di Julie, intrepretata da Laure Calamy (sì, proprio la Noémie Leclerc di Chiami il mio agente!). La donna, dopo un passato nel marketing, si barcamena facendo la cameriera in un lussuoso albergo a 5 stelle, nel quale non mancano angherie e invidie, specie quando Julie tenterà di rientrare nel settore di provenienza.
A complicare le cose si aggiunge un massiccio sciopero dei trasporti che paralizzerà per giorni il sistema degli spostamenti. Un bel problema per Julie, che vive nelle campagne dell’hinterland avendo scelto una residenza nella quale si coniugavano una migliore qualità della vita e l’equidistanza tra i posti di lavoro suo e del suo ex marito. A proposito, ovviamente quest’ultimo non le versa regolarmente gli alimenti e ciò mette ulteriormente in difficoltà la nostra protagonista, con la banca che la chiama costantemente per una questione di rate da saldare.
È un fragile equilibrio, quello di Julie e lei non ha altra scelta che correre. Contro il tempo, contro la precarietà, contro una vita che le sta sfuggendo di mano. La seguiamo nei suoi movimenti veloci e convulsi, segnati da incastri così perfetti da diventare facilmente impossibili e nella ripetitività ossessiva del suo lavoro. Il movimento di macchina preciso e rapido, insieme allo stile necessariamente documentaristico, fa sì che la frenesia di Julie diventi in breve tempo la nostra.
Così, ci troviamo insieme alla protagonista calati nei meccanismi della metropoli, gigante dai piedi d’argilla, seducente nella sua offerta di lavoro, di opportunità, di luci ammiccanti e tuttavia fragile quando il meccanismo s’inceppa, fino a diventare matrigna che fagocita i suoi stessi figli e li mastica avidamente. Così la scelta di Julie di vivere in campagna diventa, agli occhi degli altri, un handicap, perché la metropoli è una droga allucinogena che dà assuefazione e dipendenza: chi non la assume è un diverso.
Altro grande merito di Full Time – Al cento per cento è quello di riportare il lavoro al centro del dibattito. Il lavoro è il grande assente del cinema, specialmente in Italia. Nel nostro Paese, infatti, il lavoro può solo diventare argomento di discussione sul grande schermo per la sua mancanza (e quindi periferie, degrado, emarginazione) o fare da sfondo a vicende ritenute più interessanti, davanti alle quali la professione dei protagonisti è solo un ornamento. Invece qui, proprio come un novello Ken Loach, Gravel prende la questione di petto, dipingendo magnificamente la condizione della lavoratrice con prole, costretta a barcamenarsi tra esigenze inevitabilmente contrastanti (con conseguenti crisi di coscienza), un welfare non sempre presente e le difficoltà del pendolarismo. Il lavoro diventa allo stesso tempo strumento di sussistenza e di affermazione e in questo film si percepisce come le due cose vadano spesso in conflitto. Senza dimenticare un aspetto che, dallo sfondo, si prende la scena: lo sciopero come lotta collettiva, contraltare e insieme parallelo della lotta individuale di Julie.
Una menzione per la straordinaria Laure Calamy, interprete perfetta di Julie. La sua gamma espressiva sorprende e incanta, con la capacità di interpretare il comico e il tragico con assoluta naturalezza. La sua “tempesta perfetta” diventa anche la nostra.