Recensione: From Medea. Maternity Blues - Compagnia I Giardini dell’Arte “From Medea. Maternity Blues” Compagnia I Giardini dell’Arte, 27/10/2024 Teatro Lumière, Firenze.

Recensione: From Medea. Maternity Blues – Compagnia I Giardini dell’Arte

Recensione: From Medea. Maternity Blues - Compagnia I Giardini dell’Arte “From Medea. Maternity Blues” Compagnia I Giardini dell’Arte, 27/10/2024 Teatro Lumière, Firenze.From Medea. Maternity Blues”
Compagnia I Giardini dell’Arte
27/10/2024
Teatro Lumière, Firenze.

Decidere della vita della morte di un essere umano è sempre un atto estremo che spesso lascia gli altri smarriti, stupefatti, con un sottile senso di paura e insicurezza che pervade il corpo. Il vero trauma sociale, però, è quando chi decide è una madre, simbolo di amore e cura, che ad un tratto uccide la creatura che ha sentito crescere dentro di sé, ha partorito tra paure e dolori, di cui si è presa cura dal primo vagito. Questo atto appare assurdo, ma nonostante sia condannato come crudele e contro natura agli occhi di chi guarda dall’esterno, fa sorgere mille domande, dubbi e riflessioni che in molti rimangono senza risposta, mentre altri le affrontano guardandole per quello che sono, con le tante ombre e le piccole luci che ne scaturiscono.

Grazia Verasani con il suo dramma teatrale From Medea. Maternity Blues messo in scena dal 25 al 27 ottobre scorsi dalla compagnia teatrale Giardini dell’Arte al Teatro Lumière di Firenze guarda all’infanticidio senza filtri, lasciando che siano le donne, e non le testate dei giornali, a raccontare quello che è stato per come lo hanno vissuto. In queste serate, sul palco hanno preso vita Eloisa, Marga, Vincenza e Rina a cui, rispettivamente, le attrici Piera Dabizzi, Laura Bozzi, Chiara Foianesi e Rosanna Reccia hanno prestato corpo e voce perché queste donne potessero parlare e muoversi raccontando così chi sono, cosa è successo, cosa sentono nel profondo. Donne, madri, assassine, non rigorosamente in questo ordine, additate dalla società come creature innaturali per l’infanticidio commesso, che tra le pareti dell’ospedale psichiatrico giudiziario in cui sono rinchiuse trovano un luogo dove fuggire dai giudizi della folla per nascondersi o per guardare in un grande specchio quel maternity blues, quel disagio emotivo transitorio che si sviluppa post partum che ha preso il sopravvento su qualunque sentimento, qualunque pensiero. Come bagliori oscuri, si svelano a mano a mano i delitti commessi, ricordi e blackout diventano una cosa sola che stupiscono e annichiliscono lo spettatore, il pianto di un bambino riecheggia nella testa di Marga e in sala, come un richiamo, un tormento, un monito. Eppure, in quest’atmosfera quasi surreale, tra le internate si sviluppa un rapporto una rete di scontro e sostegno che sfocia in amicizia pronta ad abbracciare chi sente di cadere, anche se non sempre può salvare dai propri fantasmi, né da ciò che si è. L’interpretazione dei personaggi è calda e viva, grazie anche alla consulenza psichiatrica sul testo di Letizia Del Pace, e gli spettatori condividono del tempo con un poker di donne ognuna diversa dall’altra, a cui ogni attrice dona qualcosa di sé, come a un’amica a cui tenere la mano. Così Piera Dabizzi rende Eloisa un’icona sexy e audace, impertinente e sfrontata all’estremo, ma con ricordo che la stupisce e la attanaglia ogni volta che si presenta alla mente, e che lei allontana con scherzi e oscenità, ridendo della vita che per tanto ha riso di lei. Rina trova in Rosanna Reccia una voce dolce e gentile che sono il trampolino per ogni suo slancio di affetto, di aiuto per chi ha intorno. Rina ama per essere riamata, e Rosanna la ama talmente tanto renderla splendente sul palco in ogni sguardo proiettato su sogni di una vita migliore, splendente e disperata quando il ricordo dell’omicidio della figlia si riaffaccia. Laura Bozzi, già conosciuta nella forte interpretazione in La Stanza di Veronica, conferma la sua capacità di immedesimarsi talmente tanto nel suo personaggio da rendere difficile ricordarsi che quella che vediamo è solo una messa in scena. La sua Marga si muove in una bolla addolorata e stupefatta non solo dal gesto compiuto, ma soprattutto dal non provare quel sentimento materno che la società vorrebbe innato in ogni donna. Marga domina il corpo di Laura e del suo movimento un racconto nel racconto che arriva allo spettatore diretto come una freccia che, scoccata, non puoi fermare. Chiara Foianesi, invece, prende per mano la sua Vincenza, lascia che parli, che si sfoghi, che mugugni, che possa esprimere ciò che sente come mai le era stato concesso prima. Vincenza allora prende a piene mani la forza di Chiara per farla diventare dinamicità, passione estrema, sofferenza soffocata da un buio della mente dove ogni giorno, ogni volta, il suo bambino muore e il dolore è espiazione.

Recensione: From Medea. Maternity Blues - Compagnia I Giardini dell’Arte “From Medea. Maternity Blues” Compagnia I Giardini dell’Arte, 27/10/2024 Teatro Lumière, Firenze. Decidere della vita della morte di un essere umano è sempre un atto estremo che spesso lascia gli altri smarriti, stupefatti, con un sottile senso di paura e insicurezza che pervade il corpo. Il vero trauma sociale, però, è quando chi decide è una madre, simbolo di amore e cura, che ad un tratto uccide la creatura che ha sentito crescere dentro di sé, ha partorito tra paure e dolori, di cui si è presa cura dal primo vagito. Questo atto appare assurdo, ma nonostante sia condannato come crudele e contro natura agli occhi di chi guarda dall’esterno, fa sorgere mille domande, dubbi e riflessioni che in molti rimangono senza risposta, mentre altri le affrontano guardandole per quello che sono, con le tante ombre e le piccole luci che ne scaturiscono. Grazia Verasani con il suo dramma teatrale From Medea. Maternity Blues messo in scena dal 25 al 27 ottobre scorsi dalla compagnia teatrale Giardini dell’Arte al Teatro Lumière di Firenze guarda all’infanticidio senza filtri, lasciando che siano le donne, e non le testate dei giornali, a raccontare quello che è stato per come lo hanno vissuto. In queste serate, sul palco hanno preso vita Eloisa, Marga, Vincenza e Rina a cui, rispettivamente, le attrici Piera Dabizzi, Laura Bozzi, Chiara Foianesi e Rosanna Reccia hanno prestato corpo e voce perché queste donne potessero parlare e muoversi raccontando così chi sono, cosa è successo, cosa sentono nel profondo. Donne, madri, assassine, non rigorosamente in questo ordine, additate dalla società come creature innaturali per l’infanticidio commesso, che tra le pareti dell’ospedale psichiatrico giudiziario in cui sono rinchiuse trovano un luogo dove fuggire dai giudizi della folla per nascondersi o per guardare in un grande specchio quel maternity blues, quel disagio emotivo transitorio che si sviluppa post partum che ha preso il sopravvento su qualunque sentimento, qualunque pensiero. Come bagliori oscuri, si svelano a mano a mano i delitti commessi, ricordi e blackout diventano una cosa sola che stupiscono e annichiliscono lo spettatore, il pianto di un bambino riecheggia nella testa di Marga e in sala, come un richiamo, un tormento, un monito. Eppure, in quest’atmosfera quasi surreale, tra le internate si sviluppa un rapporto una rete di scontro e sostegno che sfocia in amicizia pronta ad abbracciare chi sente di cadere, anche se non sempre può salvare dai propri fantasmi, né da ciò che si è. L’interpretazione dei personaggi è calda e viva, grazie anche alla consulenza psichiatrica sul testo di Letizia Del Pace, e gli spettatori condividono del tempo con un poker di donne ognuna diversa dall’altra, a cui ogni attrice dona qualcosa di sé, come a un’amica a cui tenere la mano. Così Piera Dabizzi rende Eloisa un’icona sexy e audace, impertinente e sfrontata all’estremo, ma con ricordo che la stupisce e la attanaglia ogni volta che si presenta alla mente, e che lei allontana con scherzi e oscenità, ridendo della vita che per tanto ha riso di lei. Rina trova in Rosanna Reccia una voce dolce e gentile che sono il trampolino per ogni suo slancio di affetto, di aiuto per chi ha intorno. Rina ama per essere riamata, e Rosanna la ama talmente tanto renderla splendente sul palco in ogni sguardo proiettato su sogni di una vita migliore, splendente e disperata quando il ricordo dell’omicidio della figlia si riaffaccia. Laura Bozzi, già conosciuta nella forte interpretazione in La Stanza di Veronica, conferma la sua capacità di immedesimarsi talmente tanto nel suo personaggio da rendere difficile ricordarsi che quella che vediamo è solo una messa in scena. La sua Marga si muove in una bolla addolorata e stupefatta non solo dal gesto compiuto, ma soprattutto dal non provare quel sentimento materno che la società vorrebbe innato in ogni donna. Marga domina il corpo di Laura e del suo movimento un racconto nel racconto che arriva allo spettatore diretto come una freccia che, scoccata, non puoi fermare. Chiara Foianesi, invece, prende per mano la sua Vincenza, lascia che parli, che si sfoghi, che mugugni, che possa esprimere ciò che sente come mai le era stato concesso prima. Vincenza allora prende a piene mani la forza di Chiara per farla diventare dinamicità, passione estrema, sofferenza soffocata da un buio della mente dove ogni giorno, ogni volta, il suo bambino muore e il dolore è espiazione. Dove è la società in tutto questo? Dove è la famiglia? Dove sono gli uomini, mariti e compagni, genitori anch’essi di chi non c’è più? Dove erano quando nella mente l’oscurità ha preso il sopravvento sulla ragione? Quando neppure il pianto ha scosso la madre che uccideva? Nella narrazione, suonano echi lontani di tradimenti e indifferenze mentre si alternano immagini di famiglie talmente perfette da rasentare la mancanza di amore, di attenzione verso chi presenta qualche difetto, oppure perse in qualche molestia, o ancora ostinate nel cercare l’approvazione sociale. Perché sì, nelle storie che si nascondono dietro ai volti di Eloisa, Rina, Marga e Vincenza e di tante altre donne, è la solitudine che ne tesse la trama comune, la solitudine fatta di sguardi lontani, dita puntate, aspettative sempre più alte che rendono il crollo terribile. Anche quando crollano sono sole, ritenute le uniche responsabili di tutto, non ci si chiede altro, non si chiede niente, la colpa è solo loro, e così la coscienza si mette a letto tra coperte sicure, fino alla prossima tragedia. Il sipario cala e le luci della sala si accendono tra gli applausi, lo spettacolo è finito ma le sensazioni che provate in quel piccolo spazio temporale sono sempre vive, pronte a seguirti per strada, entrare a casa, guardarti dallo specchio e chiederti se quella sottile linea rossa che divide la cosiddetta normalità dalla temuta pazzia sia riservata a poche persone, oppure se è solo un caso non cadere quando si è in bilico. Non ci sono risposte pronte, ma tra i pensieri, le parole e il sonno che avanza rimane un grazie al regista Marco Lombardi e a tutta la compagnia Giardini dell’Arte per il coraggio e la professionalità con cui hanno portato in scena questo dramma, un grazie al Teatro Lumière che crede ancora che la cultura debba essere alla portata di tutti e contro ogni inflazione offre una stagione a prezzi calmierati con spettacoli curati in cui possiamo conoscere opere e attori spesso soffocati da grandi nomi e teatri. Un grazie di cuore ai tecnici, che con l’uso sapiente di luci e colonne sonore hanno dato allo spettacolo quello spessore e quella tridimensionalità che fanno sentire il pubblico parte viva di questa esperienza. Un grazie a chi accoglie il pubblico sempre con un sorriso e ti fa sentire non come uno spettatore pagante, ma un amico con cui passare del tempo insieme. Alma MarliaDove è la società in tutto questo? Dove è la famiglia? Dove sono gli uomini, mariti e compagni, genitori anch’essi di chi non c’è più? Dove erano quando nella mente l’oscurità ha preso il sopravvento sulla ragione? Quando neppure il pianto ha scosso la madre che uccideva? Nella narrazione, suonano echi lontani di tradimenti e indifferenze mentre si alternano immagini di famiglie talmente perfette da rasentare la mancanza di amore, di attenzione verso chi presenta qualche difetto, oppure perse in qualche molestia, o ancora ostinate nel cercare l’approvazione sociale. Perché sì, nelle storie che si nascondono dietro ai volti di Eloisa, Rina, Marga e Vincenza e di tante altre donne, è la solitudine che ne tesse la trama comune, la solitudine fatta di sguardi lontani, dita puntate, aspettative sempre più alte che rendono il crollo terribile. Anche quando crollano sono sole, ritenute le uniche responsabili di tutto, non ci si chiede altro, non si chiede niente, la colpa è solo loro, e così la coscienza si mette a letto tra coperte sicure, fino alla prossima tragedia.

Il sipario cala e le luci della sala si accendono tra gli applausi, lo spettacolo è finito ma le sensazioni che provate in quel piccolo spazio temporale sono sempre vive, pronte a seguirti per strada, entrare a casa, guardarti dallo specchio e chiederti se quella sottile linea rossa che divide la cosiddetta normalità dalla temuta pazzia sia riservata a poche persone, oppure se è solo un caso non cadere quando si è in bilico. Non ci sono risposte pronte, ma tra i pensieri, le parole e il sonno che avanza rimane un grazie al regista Marco Lombardi e a tutta la compagnia Giardini dell’Arte per il coraggio e la professionalità con cui hanno portato in scena questo dramma, un grazie al Teatro Lumière che crede ancora che la cultura debba essere alla portata di tutti e contro ogni inflazione offre una stagione a prezzi calmierati con spettacoli curati in cui possiamo conoscere opere e attori spesso soffocati da grandi nomi e teatri. Un grazie di cuore ai tecnici, che con l’uso sapiente di luci e colonne sonore hanno dato allo spettacolo quello spessore e quella tridimensionalità che fanno sentire il pubblico parte viva di questa esperienza. Un grazie a chi accoglie il pubblico sempre con un sorriso e ti fa sentire non come uno spettatore pagante, ma un amico con cui passare del tempo insieme.

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