Recensione: “E dal cielo caddero tre mele” – La favola di Anatolija, figlia di Volske “la dorata”
E dal cielo caddero tre mele
Narine Abgarjan,
traduzione di Claudia Zonghetti,
Ed. Brioschi
Dal cielo caddero tre mele, una per chi ha visto, una per chi ha saputo raccontare e una per chi è stato ad ascoltare e ha creduto nel bene del mondo.
Così si concludono la maggioranza delle favole armene.
Questo libro è una favola sussurrata all’orecchio e, qualunque sia il tuo nome, ti sentirai chiamare facendo seguire ad esso la parola -džan, che in armeno serve ad aggiungere una connotazione affettuosa: caro, diletto.
Ogni lettore si sentirà un lettore-džan…
“(…) – Regalami un gioiello di cui non ti importa. è così che si fa – Scandì la zingara, lentamente.
– Apri il cassetto di sopra del comò. Dentro c’è una scatola. Prendi quello che vuoi -.
La zingara si alzò a fatica, sistemò il lenzuolo e la coperta, aprì il cassetto, ci infilò una mano, ne cavò qualcosa che nemmeno guardò e che si infilò in seno (…)”.
Questo libro è la favola di un anello sotterrato da una zingara e ritrovato dopo più di mezzo secolo, avvolto in un lembo di stoffa, seppellito in un lembo di giardino.
“Anatolija si chinò, osservò il fagotto mezzo putrefatto, lo aprì con grande cautela e ci trovò dentro, un pesante anello d’argento scurito dal tempo e con una grossa pietra violacea di cui non conosceva il nome”.
É la favola di Anatolija, figlia di Volske “la dorata”, sulla cui famiglia si era abbattuta la maledizione di Tatevik, morta a un passo dalle nozze. Maledizione da cui solo una coltre di lunghi capelli poteva potreggere, come se i capelli potessero isolare e custodire la loro fragile esistenza. Capelli come un velo di sposa, perchè mettere un velo su qualcosa ne aumenta l’azione e il sentimento.
Tutto questo accade a Maran, il paese di cui un’intera metà sprofonda a valle quando il terremoto fa scivolare il fianco ovest del monte Manish-kar. Maran è un paese immaginario archetipo di una miriade di paesini armeni. Un grumo di case scavate tra le rocce dove il postino si inerpica due volte al mese a portare lettere che sono in pochi a saper leggere.
Eppure le parole di Narine Abgarjan hanno un tocco così leggero, un’andatura così lieve, da potersi muovere liberamente tra le pietre e le crepe, osservando senza essere osservate. La vita appare e poi sfuma per poi riapparire di nuovo.
Le cose perdute per secoli si possono così ritrovare seguendone l’ombra. Cose di un passato dimenticato e poi riscoperto grazie allo sguardo nuovo e leggero di Nastas’ja.
Sopraffatti dalla natura, dalla carestia, dalle orde di topi famelici, da sciami di mosche gigantesche, dalle guerre che strappano i figli alle madri e i giovani uomini alle donne, gli abitanti di Maran, sono ciechi oramai.
E come Nastas’ja, con un nome simile al suo, mi aggiro tra le pagine del libro e tra le pietre di Maran, le sue povere case, cogliendone l’archetipa bellezza. Uomini come sassi e sassi come case. E come lei mi verrebbe di disegnarne ogni granello di bellezza. Bellezza che gli abitanti non vedono più, come non vedono le iniziali profetiche, V e K, nascoste tra i merletti del ferro della ringhiera posta sull’orlo di un crepaccio e non percepiscono la natura salvifica del bianco pavone, arrivato misteriosamente in paese con un carico di polli, capre e maiali.
È vero, ci si innamora di questo paese maledetto, si arriva a desideralo nei più perduti angoli, se ne assaporano le antiche ricette di torte deliziose cotte sotto la cenere e infusi medicamentosi. Si inizia a immaginarne l’alba da ogni prospettiva e ogni abbandono del sole. Ci si affeziona alle sue genti, avvicinandole cautamente cercando una parola che possa dar loro conforto, aiutandoli nel fare provviste per l’inverno.
Una pagina dopo l’altra le storie svaporano in leggenda. Un bambino vede colonne di luce blu scendere dal cielo con angeli che portano via le anime dei poveri morti di fame e stenti. Le lapidi poste ai piedi dei defunti diventano nel giorno del giudizio, porte che danno al paradiso. I fantasmi nei sogni reclamano le loro scarpe nuove… e Anatolija, figlia di Volske, che si preparava a morire silenziosamente, si scopre destinata a vivere un miracolo.
Perchè bisogna resistere per trovare coloro a cui apparteniamo, raccogliere i resti dei preziosi valori perduti e riportarli al mondo. Ed è così che trenta vecchie e otto vecchi in un paese infreddolito, attendono nuovamente, col cuore in gola l’arrivo della vita. Resti dei preziosi valori perduti… il vecchio anello d’argento con la pietra di ametista ritrovato da Anatolija, apparteneva alla sua bisnonna e per tradizione sarebbe dovuto andare alla prima nipote, Tatevik, ma invece toccò a Volske, sua madre. Volske donò l’anello alla zingara quando Anatolija venne al mondo…
Passato e presente si abbracciano e ricominciano insieme a cantare ninna-nanne, “quella sulla giornata di pioggia e sole in cui mamma lupa aveva avuto sette lupacchiotti (…); quella sul vento che portava sulle sue ali possenti il ricordo di chi non c’era più; quella della vite che era arrivata fino al cielo e i cui rami facevano da culla agli uccelli del paradiso…”.
Chiudo il libro e non so più se l’ho sognato o l’ho letto per davvero… ma non importa, i sogni sono la traccia di un qualcosa che è lì, nella nostra anima, qualcosa che desideriamo e che non abbiamo il coraggio di lasciar andare…
E poi… le immagini redisue sono così dense che un libro non basta per tenere insieme tutto quello che ancora immaginiamo dover accadere a Maran…