Recensione: “Diario di un inadeguato, ovvero MUMBLE MUMBLE atto II°” – Una “baraonda dell’anima”
Diario di un inadeguato, ovvero MUMBLE MUMBLE atto II°
di Emanuele Salce
in collaborazione con Andrea Pergolari
con Emanuele Salce e Paolo Giommarelli
regia Giuseppe Marini
musiche Paolo Coletta
Oggi ha tutta l’aria di essere un giorno funesto: Amanda sta per arrivare in Italia, c’è il funerale di una zia del ramo familiare “Gassman” e l’appuntamento dal terapeuta.
Una poltrona, un diario e il corpo vivo degli attori. Questi gli ingredienti dello spettacolo, Diario di un inadeguato, visto all’ Off Off Theatre di Roma, che riprende il filo del racconto di MUMBLE MUMBLE cercando di “chiuderne il cerchio”.
La storia gravita intorno alla figura del protagonista che, attraverso la propria vicenda personale, compie un tormentato percorso di espiazione senza perdono. Egli sembra portare con sé la croce dell’antica colpa di cui tutti i discendenti e, in qualche modo parenti, di Gassman recano il goloso e gravoso peso.
Addominali buoni. Per arrampicarsi fino alla fine dello spettacolo ci vogliono buoni addominali. E riflessi pronti.
Sul palco c’è buio e quando, annaspando con lo sguardo l’ultimo residuo di luce, ti rassegni davanti alle tenebre, ti appare. Sì, proprio lui. Stai lì e lo guardi emergere dall’oscurità e la sua voce deformata e moltiplicata pare venirti incontro. Allora pensi che di Emanuele Salce, probabilmente, devi ancora capire molte cose.
Col sorriso sulle labbra, Emanuele si seziona e si espone. Il gioco è scoperto. Lui, persona e personaggio, non finge naturalezza, non si preoccupa se il corpo dondola, forse non si accorge che la voce trema un pochino, giusto un impercettibile vibrato qua e là quando accenna a suo padre. Pescando dal mazzo dei ricordi, mette in moto un flusso di incoscienza mentre i pensieri si attorcigliano negli arcobaleni della mente. E comunque la vita, pure quando è cattiva, sempre variopinta rimane.
Perché dietro le risate sgargianti, i caroselli di personaggi di famiglia, le gag con un terapeuta poco accondiscendente, i racconti amorosi accattivanti, una bionda australiana piacevolmente invadente, dietro tutto questo c’è il dolore. Possibile? Possibile sì. Inutile girarci intorno. Ci sono la solitudine, l’ansia efferata o sottile, l’inadeguatezza. L’allarme della fragilità.
Sono inadeguato, scherza Salce, a giustificare vezzosamente quella baraonda che cresce sul palco via via che lui snocciola ricordi. Dietro questa liberatoria rivendicazione di diritto al fallimento c’è anche tutta la forza di chi, nonostante tutto, invece di stagnare coi piedi a mollo nella sua depressione, mentre tutto dentro e intorno crolla, inizia a fare l’attore, oltre che ad esserlo.
Ha inizio così un percorso di conoscenza che si sviluppa sul doppio binario personale-artistico. Il diario, dunque, smette progressivamente di essere un contenitore di ricordi e si trasforma nello spazio che accoglie l’anima.
Ed è nell’alternanza della forma autobiografica e meta-teatrale che si dipana l’articolata gestazione del sequel di MUMBLE MUMBLE, che nella sua faretra possiede delle frecce particolarmente appuntite, sapientemente scoccate nei modi e tempi giusti e soprattutto con notevole precisione.
Una di esse è un ribaltamento e poi un annullamento dell’idea del rapporto gerarchico tra attore e spalla. Così come Giommarelli/amico/regista/terapeuta guarda Salce, quest’ultimo guarda Giommarelli. Ancora: il primo dimostra di conoscere le idiosincrasie del secondo e il secondo ribatte dimostrando di conoscere quelle del primo.
Da questo scambio di sguardi nasce una nuova, più profonda affinità, purché… Giommarelli non sgualcisca il diario!
La difficile integrazione tra Emanuele e il resto del mondo, e la conseguente mancata sintonia tra lui e il suo ambiente hanno tra i motivi d’origine quella crisi dell’«io», tema tra i più ricorrenti del teatro contemporaneo.
Alla fine solo una forestiera, Amanda, donna solare e calorosamente disarmante, lo riconquisterà all’amore e alla vita. Passa un po’ di tempo però e l’incanto finisce, caduto in un grave stato di prostrazione, si condanna a vivere nella misantropia e, a quel punto, decidere di calcare il palco sarà solo una delle forme di autolesionismo escogitate dalla sua “macchina-edifica-alibi”.
Una capacità, quella di tessere relazioni durature e proficue, che Emanuele Salce dice di non avere a parole ma, che è sconfessata dal suo pubblico, a cui è legato da un rapporto di consuetudine testimoniato da più di dodici anni di incontri in teatro.
Perché, quando qualcuno, tanti, ci seguono in un sogno, un disegno, un progetto, diventa una bella responsabilità. Quando qualcuno intreccia il suo tempo al nostro, bisogna affidarsi reciprocamente, piegarsi senza presunzione agli sguardi. Si tratta, insomma, di non fare l’artista, o meglio di non fare l’artista “come-da-copione” capriccioso e saturnino, vanitoso e solitario. Meglio giocarsela con ironia.
Facciamo attenzione. Ironia sì, ma non parodia o abuso di cliché, e sarebbe facile camparci solo di rendita. Perché c’è sempre, in Emanuele, una forma di pudore e di rispetto, sia che metta per un attimo in ridicolo Gassman attraverso l’azzurro ignorante sguardo di una straniera, sia che racconti di suo padre Salce. Dietro la tavolozza vestita a festa, una sorta di intima malinconia, quella sì tutta “Lucianiana”. Ma perché è così difficile farsi capire?
Il pubblico non fa attendere la propria risposta, comprensiva e conciliante. Del resto ha accettato con elasticità risate e lacrime, avendo contezza dei meccanismi che regolano i rapporti tra chi racconta e chi ascolta.
È stato posto a un’eccezionale prossimità spaziale ed emotiva. Coglie ogni cosa, il bagliore lucido dello sguardo, le espressioni malinconiche del volto, il sorriso limpido, il tono familiare della voce. Ci si sente davvero coinvolti in un dialogo intimo, in una conversazione privata, a sbirciare tra le pagine di un diario.
Sul palco spoglio, vedendolo isolato, ci troviamo improvvisamente soli, a quattr’occhi, con lui, il protagonista. E lasciare il teatro alla fine diventa difficile, ti volti indietro più volte, come quando saluti un caro amico alla stazione.
Alla fine storditi da quella che Emanuele Salce chiama “una baraonda dell’anima”, resta la sensazione di aver ascoltato una storia che non chiude un cerchio. Anzi: ne apre tantissimi.