Recensione: “David Fincher. La polisemia dello sguardo” – Un viaggio nell’opera del regista
“David Fincher. La polisemia dello sguardo” è la raccolta di saggi che racconta il cinema del regista di film come “Fight Club”, “Zodiac” e “Seven”. A cura di Antonio Pettierre, è stata pubblicata da Mimesis Edizioni.
Se polisemico è lo sguardo di Fincher, polisemiche sono le analisi di ogni film che dividono il volume in capitoli e che portano la firma di Rudi Capra, Giuseppe Gangi, Marcello Perucca, Eugenio Radin, Rita Ricucci, Filippo Zoratti, Matteo Zucchi e lo stesso Antonio Pettierre. Approcci diversi in cui si muovono più voci e interpretazioni che diventano lo specchio ideale di una produzione complessa, ricca di significati e leggibile su più livelli, anche se l’idea di fondo del male nella società l’attraversa in modo trasversale e la avvolge in un’area di pessimismo e desolazione.
Nell’introduzione, Pettierre definisce Fincher un “autore”, innanzitutto per come nel suo cinema emerge uno sguardo sul mondo del tutto personale, perché deriva proprio dal suo vissuto. A questo aspetto si aggiunge la ricorrenza di determinate dinamiche nei suoi lavori, come il contrasto tra figure maschili e femminili dove, alla predominanza delle prime corrisponde l’importanza delle altre per lo sviluppo della storia. La stessa tematica del male che si insinua ovunque nella società diventa archetipo della produzione del regista, e trova nel linguaggio cinematografico e digitale un mezzo per ricreare la realtà per come lui la interpreta.
Questo aspetto è un tratto che accomuna le varie analisi, in quanto gli autori sono attenti nel collegare l’uso che il regista fa del digitale al contesto del film che analizzano: la tecnologia diventa strumento per creare una realtà più reale del vero.
Gangi chiarisce come in “Mank” l’effetto da film degli anni ’40 parta da un bianco e nero che è totalmente costruito da zero in postproduzione. Anche Rudi Capra sottolinea la ricostruzione digitale della San Francisco anni ‘60 in “Zodiac”, mentre Pettierre svela come in “The Social Network” venga usata la tecnica del morphing per i gemelli Winklevoss, interpretati da due attori diversi, ma applicando sul primo la faccia del secondo avviene il “miracolo”. Marcello Perucca, invece, guida la nostra attenzione sulle didascalie iniziali di “Seven” che, nella resa grafica disordinata aumentano il senso di caos in cui versa la società moderna e nella quale i personaggi devono agire. Ne emerge un ritratto autoriale di Fincher come creatore di segni e realtà, di un occhio che non vuole solo illustrare il mondo, ma che lo re-inventa per come lo vede e lo sente esistere.
Tuttavia, l’arte fincheriana non si esaurisce nella riproposta di un reale costruito attraverso la tecnologia, ma anche nella polisemia delle forme che hanno caratterizzato la sua carriera a partire dai videoclip musicali e le pubblicità degli anni ’80, per passare poi sui grandi schermi e diventare, infine, protagonista di una produzione concentrata sullo streaming e sulle piattaforme con serie come “House of Cards”. In un certo senso, Fincher riesce sempre ad avere una posizione preminente nel flusso produttivo di ogni periodo storico, senza esserne piegato, anzi riuscendo a portare in prima linea le sue proposte nelle forme e nei contenuti.
Altro tratto comune, che emerge dalle varie analisi, è il focus del regista che rimane centrato sulla natura del male scaturito dal lato oscuro dell’essere umano. C’è un risalto delle sfumature drammatiche e un certo fascino per questo aspetto inevitabile della natura umana, sia esso individuale o sociale, spesso l’uno origine o conseguenza dell’altro, che può infiltrarsi ovunque e assumere qualsiasi forma.
Il tutto in un contesto di caos, disgregazione, disorientamento e predominio delle ossessioni.
Il volume diventa, dunque, un viaggio nell’opera di Fincher in cui ogni tappa ne approfondisce gli aspetti facendo da specchio alla complessità dell’attività del regista stesso.
Forme, tecniche e contenuti sono presentati al lettore in modo completo e sapiente, con capitoli leggibili singolarmente. proprio per la natura stessa dei saggi, o nel suo complesso, grazie a delle linee comuni che rendono la lettura scorrevole e coerente.