Recensione: Come mi volevi – un fertile mix di provincialismo e dinamismo
“Come mi volevi”
di Gian Carlo Fanori
Giovane Holden Edizioni
Quando, dopo aver letto un libro che mi ha lasciato un buon sapore in bocca, vado a scandagliare quella miniera di informazioni e pettegolume che è internet per avere sull’autore maggiori notizie di quante mi siano state fornite dalla terza di copertina, ci rimango un po’ male se ne riemergo con poco o nulla di più nelle tasche. Come nel caso di questo scorrevole e intrigante “Come mi volevi” (terza di copertina, a proposito dell’autore: “Dopo il diploma di Maturità Classica ha conseguito a Pavia con lode …”).
Però, grazie a internet, sono almeno venuto a scoprire un paio di dati che nel libro mi hai accuratamente nascosto, caro Gian Carlo Fanori. Un paio di dati che io reputo indispensabili se un lettore ficcanaso come me vuole farsi un’idea più accurata e approfondita di uno scrittore. Sei della classe di ferro 1954 e ligure doc, essendo nato a Recco.
E allora mi spiego tutto, o almeno molto di più di quanto mi abbia concesso l’avarizia tua e del tuo editore. Ed è un tutto (o un molto di più) che depone senz’altro a tuo favore, che ti assegna una patente di credibilità letteraria, caro Fanori. Perché, sebbene tu sia munito del bollino della laurea in Lettere moderne e perciò accreditato di una formazione culturale specifica, a scrivere e sfornare romanzi ti ci sei messo alla bella età di sessant’anni o giù di lì. E ti ci sei messo davvero di buzzo buono, visto che “Come mi volevi”, se non ne tieni altri nascosti nel cassetto, è il tuo sesto romanzo e stai quindi viaggiando alla velocità di due romanzi ogni tre anni. Niente male per un debuttante sessantenne!
L’altro dato per me importante (torno a rivolgermi ai destinatari di questa recensione) è la terra di origine di Gian Carlo Fanori. L’autore di “Come mi volevi” appartiene a quella non sparuta schiera di scrittori (metto in testa, fra i contemporanei, il poeta Franco Loi) di origine ligure trapiantati a Milano. Che hanno quindi respirato e assimilato la cultura dell’operosa metropoli lombarda, senza perdere – al contrario: immettendo nella cultura lombarda – l’acume, salmastro e collinare al contempo, della terra cantata da Fabrizio De André e da Maurizio Maggiani.
Fanori, quindi, racchiude in sé, e in ugual misura esprime nella sua opera, un fertile mix di salato provincialismo e cosmopolita dinamismo, coltivato in diversi decenni di professione nel mondo dell’industria, che lo hanno visto – come pubblicista nel campo del giornalismo – occuparsi di management, gestione delle risorse umane e comunicazione per diverse firme commericali (presumo con epicentro all’ombra della Madonnina).
E questo mix di ingredienti c’è tutto, ed è distribuito con cura, arguzia ed eleganza stilistica in tutto il corso di “Come mi volevi”. Come è mia abitudine, mi guardo bene dal tentare un sunto della vicenda narrata, specie là dove la vicenda (non tacciatemi di eresia, vi prego!) può essere considerata inessenziale per apprezzare un romanzo, a vantaggio di altri ingredienti quali il modo di caratterizzare e muovere gli attori, lo stile, le descrizioni paesaggistiche, eccetera.
Basta dire che qui c’è un tal Luca Grimaldi, che ci si presenta come un sognatore, forse un uomo di altri tempi, tanto innamorato dei libri antichi e di arte, da inventarsi libraio titolare di una piccola libreria specialistica nel cuore di Milano, che ostinatamente cerca di tenere in vita contro ogni logica imprenditoriale. Fino a che, costretto dall’evidenza e dalla prospettiva del fallimento, non cede all’offerta societaria di un altro imprenditore senza scrupoli. Per venire in breve tempo scagliato in un vortice che lo allontana mille miglia sia dalla sua cullata isoletta culturale, che dalla compagna con cui ha condiviso l’amore per quell’isoletta, e lo scaglia – grazie anche a un imprevisto, sicuramente non cercato colpo di fortuna – ai vertici della scala gerarchica di una multinazionale, tra meeting poliglotti e hotel a cinque stelle, colleghi senza scrupoli o invidiosi e donne di bellezza vertiginosa, assetate di bollicine e di avventure intense quanto brevi. Per ritrovarsi, infine, in un letto di ospedale a seguito di un episodio di violenza per motivi che restano nel dubbio, e proprio nel dubbio rivangare il proprio passato, tanto lontano e pressoché dimenticato, di libraio di nicchia e l’amore di quel tempo verso una fanciulla che forse non lo ha del tutto dimenticato.
“Provi a chiamarla, Grimaldi. Sempre che lo desideri e abbia imparato dagli errori del passato. Ne sarà felice”. Chi glielo dice, in visita al suo letto di degenza ospedaliera, è proprio il padre di lei, che ha sempre osteggiato l’amore tra la propria giovane figlia e il più anziano e spiantato libraio sognatore. In questo dubbio – condito dal ricordo quasi sbiadito di una vacanza in Val d’Orcia con la fanciulla amata ai tempi eroici e spiantati della libreria di nicchia – il romanzo si spegne. Senza far rumore, sena colpi di scena finali. Con ammirevole discrezione. E noi chiudiamo il libro con un’ultima domanda che non ha risposta: finirà, il nostro simpatico protagonista, per tornare sui suoi passi e riconquistare la domestica quiete della sua piccola libreria al centro di una Milano signorile e riservata? Chissà, magari il prolifico Gian Carlo Fanori sta già scrivendo il sequel di Come mi volevi. Che mi permetto di immaginare come una sorta di moderna Odissea, un tormentato ritorno a un’Itaca che è una Milano delle sei del mattino del sabato.
Quella Milano che Fanori così descrive nell’incipit: “ancora poltriva, il giorno non era cominciato davvero, in giro non c’era quasi nessuno, i camion della nettezza urbana rientravano alla base, terminata la pulizia delle strade, i tram passavano semivuoti, lenti e pensierosi verso le loro destinazioni, scivolando assonnati sui binari”.