Recensione: Chiamatemi Robert Capa – Odio la guerra…
di Enrico Inferrera
Edizioni Creativa
Per i lettori come me, che privilegiano la narrativa a scapito della saggistica, le biografie rappresentano quasi sempre un rischio: quello di rimanerti sullo stomaco come un indigesto mattone. Non è sufficiente, ad evitare il rischio, che oggetto di indagine biografica sia un personaggio verso il quale si prova un preventivo interesse, il che va dato per scontato: di solito non si affronta la lettura di una biografia, se non vi è questo movente. Il problema è che quando la biografia è “piatta”, non c’è nulla da fare, il boccone resta indigesto, o quantomeno “stopposo”, se il biografo non ci ha messo una buona dose di quegli ingredienti che fanno lievitare e insaporire il tutto.
Bene. Enrico Inferrera – di cui ho già avuto modo di recensire e apprezzare il romanzo “Idia ascoltami”, scritto a quattro mani con l’archeologa professoressa
Filomena Lombardo – con “Chiamatemi Robert Capa” ha confezionato e ci ha regalato una biografia che si beve con grande piacere e in un sorso solo. Ripeto ed evidenzio: in un sorso solo. Già, perché poche, pochissime volte mi è capitato di veder condensata in poco più di un centinaio di pagine, la vita intera di una persona che ha fatto storia: in questo caso la storia della fotografia di guerra. Sembra quasi che Inferrera si sia accinto a vergare la biografia del grande fotografo ungherese nel chiuso di una cella, disponendo di poco più di un centinaio di fogli fornitigli attraverso le sbarre della cella dal suo editore-carceriere, e perciò costretto a non sprecare parole e carta. Fuor di metafora, chapeau! a Inferrera per essere stato capace di scrivere una biografia tanto asciutta, quanto appassionante e costruita scegliendo con sapienza gli elementi essenziali per apprezzare Capa e il segno che Capa ha lasciato nella storia del foto giornalismo, soprattutto quello di guerra.
Mi azzardo a dire di più. Mano a mano che si avanza nell’agile lettura del libro, mano a mano che Inferrera ci imbocca di notizie e aneddoti sul grande fotografo di guerra, ci rendiamo sempre più conto che, per colpa nostra o altrui, troppo poco sapevamo di lui (sì, certo: l’arcifamosa fotografia del miliziano colpito a morte, “Falling soldier”, con il braccio che regge il fucile aperto come un’ala), che la sua vita e la sua opera vanno rivalutate, facendole uscire dalle ristrette e patinate stanze dell’arte fotografica per collocarle a pieno titolo nella storia dell’uomo contemporaneo.
Non sto ad elencare tutte le “tessere” di cui Inferrera mi ha arricchito per ricomporre il puzzle della vita di Robert Capa: il legame con Gerda Taro, collega e amica morta in Spagna durante la guerra civile; la sua aspirazione alla letteratura, che avrebbe preferito alla fotografia; la fondazione a New York della gloriosa agenzia fotografica Magnum; la partecipazione in prima persona al D-day, lo sbarco in Normandia del 6 giugno 1944; l’amore travolgente con Ingrid Bergman; per arrivare alla morte nel 1954, dilaniato dallo scoppio di una mina anticarro nel corso della guerra d’Indocina.
Mi preme piuttosto evidenziare quanto sia pertinente e fondato l’accostamento che Inferrera opera tra Capa e Albert Camus (entrambi nati nel 1913) e la collocazione a pieno titolo di Capa nel movimento esistenzialista. E quanto siano stimolanti alcuni capitoli di questa snella e appassionata biografia.
Mi riferisco, tra gli altri e in particolare, al racconto del viaggio di Capa in Unione Sovietica assieme a John Steinbeck, per “conoscere come vive la gente in Unione sovietica e raccontarlo”. Ecco, Inferrera ci ricorda che al termine di quel viaggio John Steinbeck scrisse “A Russian Journal”, pubblicato per la prima volta nel 1948, uscito in Italia nel 1950 come “Diaro russo” nella collana Mondadori “La Medusa” e nel 2018 ripubblicato da Bompiani con le numerose fotografie scattate nel viaggio da Capa. Mi procurerò senz’altro l’edizione del 2018 della Bompiani. Ma saprò resistere alla tentazione di procurarmi anche l’edizione 1950 della Mondadori (ho verificato: per non meno di una cinquantina di euro)? Devo allora riconoscere a Inferrera un merito ulteriore: quello di stimolare nel lettore, attraverso il richiamo e la chiosa, la lettura di altri libri, di altri autori, dando con ciò al lettore la possibilità di arricchire il proprio bagaglio culturale (merito che solitamente riconosco a Emmanuel Carrère: non c’è un suo libro che non ti “costringa” a procurarti almeno un paio dei libri di altri autori che richiama o con cui si confronta).
Mi ha fatto molto riflettere il capitolo (è l’undicesimo) in cui è raccontato il viaggio di Steinbeck e Capa in Unione Sovietica. È forse il capitolo in cui Inferrera maggiormente si lascia andare alle trasposizioni delle testimonianze dirette, quelle virgolettate. Qui, si tratta di stralci proprio del “Diario russo”. E si riferiscono precipuamente alla bellezza, al fascino di terre come la Georgia, da una parte, e dall’altra alla tristezza della popolazione, della gente. “Che abiti indossa la gente da quelle parti? Che cosa mangia a pranzo? … E come si fa all’amore e in che modo la gente va all’altro mondo? …. Si balla, si canta, si gioca?”, si domanda Steinbeck accingendosi al viaggio. E poi dà questa risposta: “Tornammo alla nostra camera da letto verde e ci accorgemmo di essere molto depressi. Non riuscivamo a spiegarci esattamente il perché, ma poi finalmente capimmo. C’è davvero poca allegria nelle strade e di rado qualcuno sorride. Le persone camminano, o piuttosto scivolano via, con la testa bassa e non sorridono”.
Ecco. Non so se Inferrera lo abbia fatto di proposito, intenzionalmente. Ma vedermi riproposta la vita di un grande fotografo di guerra, vedermi ricordare che questo grande fotografo è morto a quarant’anni di età saltando su una mina anticarro mentre fotografava la guerra d’Indocina, vedermi svelate le riflessioni di un grande scrittore americano del ‘900 sulla tristezza della gente di Mosca negli anni immediatamente successivo alla seconda guerra mondiale; tutto questo mi ha ulteriormente spinto nello sgomento a cui sono costretto, a cui tutti noi siamo costretti, dagli assurdi rumori di guerra che ci stanno assordando.