Recensione: “C’è un soffio di vita soltanto” – Piacere di conoscerti Luciano, o forse dovrei chiamarti Lucy?
Piacere di conoscerti Luciano, o forse dovrei chiamarti Lucy?
“C’è un soffio di vita soltanto”, nelle sale cinematografiche dal 10 gennaio, è il film di Matteo Botrugno e Daniele Coluccini che racconta la sua storia, un documentario che vive nella frontalità di un’intervista, e qui l’intervistato è un uomo che ha cambiato sesso, senza cambiare nome. All’apparenza comune pensionata, è stata un disertore, una prostituta, una deportata.
Luciano parla di sé a volto scoperto e ci racconta di un’esistenza turbolenta iniziata a Fossano, dove è nato nel 1924. Antifascista da sempre, è tra i pochi che sono usciti vivi da Dachau, e tra i pochi usciti vivi ancora in vita…
Una lunga scia di memorie scorrono di fronte alla macchina da presa, sebbene non sia facilissimo raccontare le difficoltà, i turbamenti e gli orrori dell’epoca, arriva, più o meno nitidamente, una narrazione atipica, suggestiva e inevitabilmente affascinante.
Lucy è stata costretta a guardare l’orrore, ma ha saputo resistergli con forza e coraggio ineguagliabili.
Nel colloquio le domande dei registi si intuiscono, tagliate fuori dal montaggio finale, sentiamo solo le riflessioni di Lucy che scandiscono la sequenza dei gesti quotidiani: rifare il letto, mettere in ordine, cucinare. Però si evince che al di là del cronachistico, nel redigere una esposizione dei fatti aliena da ogni interpretazione o valutazione si tenta di scendere in profondità sbrogliando questioncine giusto un poco scottanti, perché non dobbiamo dimenticare che chi abbiamo di fronte è stata una delle prime italiane a sottoporsi a Londra a un intervento chirurgico di riassegnazione sessuale. Quindi è interessante percepire il punto di vista in merito alla religione, all’etica, all’empatia, di chi ha precorso i tempi e sgomitato tra indignazione e discriminazione.
La donna seduta a tavola, che prepara l’insalata spezzandola con le mani, come fanno tutte le nonne, in un ambiente familiare, semplice, dignitoso, e che risulta una cornice a dir poco perfetta, si sbottona del tutto, è disillusa dalla vita, ma non cinica, con ancora un barlume di umanità soprattutto quando parla della sua famiglia e dei suoi genitori. Per il resto non c’è nessun rimpianto.
È una testimonianza dolce, cruda, diretta, forse perfino rara, e in un certo senso sarebbe stata sufficiente il suo essere la più anziana trans italiana a giustificare il documentario, eppure Lucy ci fa imboccare un’altra strada, ci porta con lei a Dachau, ci parla di una storia che nessuno sembra voler più ascoltare, la gente non vuole sapere, proprio come allora: “Nessuno voleva sapere al mio ritorno. Nessuno mai mi chiese cosa mi fosse accaduto a Dachau. Siamo stati dimenticati. Alla gente non fregava niente. Non voleva sapere, non voleva sapere… “ racconta Lucy.
Raccontando sfoglia per noi l’album dei ricordi, le foto della sua giovinezza, della sua famiglia. Si diffonde una riflessione toccante, un momento alto che passa dalla storia personale di Lucy/Luciano al senso di un’esistenza che trova pienezza negli insegnamenti che se ne possono trarre. Lo sguardo vispo, la bocca maliziosamente sorridente, Lucy declama le sue poesie, poesie goliardiche, succose, piene di doppi sensi ambigui e poi poesie romantiche, intime: “C’è un soffio di vita soltanto”, così termina una sua poesia.
È davvero un piacere conoscerti Luciano, o forse dovrei chiamarti Lucy?
La risposta è tra i fotogrammi del film, con una logica che non fa una piega: “Perchè una donna non può chiamarsi Luciano?”.
Ha 96 anni Lucy ed è una donna di altri tempi, il nome Luciano lo hanno scelto i suoi genitori, e per lei, per tale motivo è “sacro”.
Se qualcuno ci vedrà della morale non richiesta, pazienza, a chi scrive è passata un’ultima lezione, quella di non arrendersi mai, neanche di fronte alla burocrazia, alla consuetudine, che impedisce a una donna di chiamarsi Luciano.
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