Recensione: “CARIBE” – L’avventura, i pericoli, i pregiudizi religiosi ed il desiderio di conoscenza nel 1500
“Fu allora che capitò la svolta del destino, il fatale cambiamento che mi separò dalla gente comune e mi convertì in un uomo d’altro genere: un guerriero. Fu un capovolgimento che mi portò in luoghi dei quali avevo sentito parlare e in altri che quasi nessuno conosceva, almeno non i cristiani.”
Questo è “CARIBE” (Arkadia Editore) di Fernando Velazquez Medina, scrittore cubano, critico letterario e di cinema, residente negli Stati Uniti.
Chiudere gli occhi ed immaginare di trovarsi su una nave corsara in una baia di Cuba o in un inviolato villaggio Maya delle Indie Occidentali, con questo romanzo, attraverso le parole e i ricordi di Don Diego Valdés è assolutamente possibile.
Il protagonista, nonché narratore, arrivato ad un certo punto della sua vita e convinto di non avere più a disposizione molto tempo da vivere, decide di raccontare al figlio maggiore la sua storia affinché non vada perduto nell’oblio il ricordo del suo viaggio attraverso un mondo fatto di usi diversi, razze sconosciute, animali favolosi, regni enigmatici e sapienze profonde.
“Io ho avuto una vita interessante, figlio mio, e non te la auguro. Ecco il motivo per cui te la racconto: perché rimanga traccia di ciò che ho fatto affinché la nostra famiglia non sprofondasse nella mediocrità”.
E così, attraverso gli occhi di un Diego tredicenne, ragazzino di colore nato libero ed istruito alla lettura (“E siccome io ero uno dei pochi che sapevano leggere, e mio padre ne era orgoglioso, ci davano i loro libri in cambio di vino, birra……”), il lettore viene catapultato nelle vie e nella vita dell’Avana del 1500 per poi trovarsi a solcare mari e fiumi alla ricerca di un sapere sconosciuto celato in luoghi ancora inesplorati. Le descrizioni sono così vivide e precise in ogni dettaglio che non si può fare a meno di vedere chiaramente le vie, le navi, i corsari, il mare in tempesta, i terribili e temibili animali marini e terrestri e quant’altro. Il lettore è lì con Diego, vede e sente insieme a lui, tutti i sensi sono all’erta.
“C’erano trippa di manzo lavata in acqua calda e succo di limone, tagliata in piccole parti, lessata in una pentola di acqua e sale con l’aggiunta di una zuppa di maiale e mais secco. Quando fu a buon punta di cottura le aggiunsero batata, mais tenero, mezzo limone, due teste d’aglio e platano non ancora maturo tagliato in due. Una volta che tutto prese un colore bianco, aggiunsero zafferano, comino e coriandolo, e lasciarono che la salsa prendesse consistenza”.
La tranquilla e modesta vita di Diego viene stravolta il giorno in cui un frate francescano lo accusa ingiustamente di eresia e omicidio ed è solo grazie ad un monaco italiano, Frà Uberto Eco, che riesce a fuggire a morte certa unendosi alla sua spedizione. Uberto diventa così il suo mentore e gli spiega come la loro missione, in un mondo in cui la barbarie è all’ordine del giorno, non sia volta alla conquista di territori e tesori, bensì alla ricerca e alla scoperta di conoscenze e saperi perduti.
“Ecco perché esistiamo noi: per coltivare l’amore del sapere, la geografia, le arti, la fisica […] Come quel musulmano che ordinò di bruciare la biblioteca di Alessandria […] così abbiamo perduto gran parte della sapienza del mondo antico e abbiamo dovuto riscoprire cose che i greci e gli altri già sapevano, come il fatto che la Terra è rotonda e le rotte da seguire per raggiungere altre terre. Perché in realtà gli spagnoli non hanno scoperto proprio niente. E nemmeno i portoghesi”.
Nel contempo gli insegna che i terribili animali conosciuti durante il viaggio, che agli occhi di un ragazzino (ma anche di un adulto) possono sembrare mostri, in realtà non lo sono, non si può considerare mostro qualcosa solo perché è diverso da noi ed apparentemente spaventoso (anche noi ai suoi occhi potremmo esserlo), “I veri mostri sono quelli che giustificano le loro malefatte con la religione, o la patria o altre stupidaggini, per dissimulare i loro istinti assassini e la loro iniquità. Quelli sono i mostri di cui aver paura!”.
All’interno della storia di Diego il ricordo di un altro racconto, fatto da un altro uomo, un racconto talmente strabiliante da essere vivo nella sua mente nonostante il passare degli anni. Essere salvato dagli indigeni, entrare nel loro santuario, vedere i loro Dei ed inevitabilmente paragonare tutto a quella religione che si stava insinuando prepotentemente in quelle terre che erano libere.
“peccato non fosse la mia religione perché quegli dei erano davvero gentili con i loro adepti […] di una cosa mi ero reso conto: durante l’intero giro non avevo visto nessun sacerdote, neanche l’ombra, mentre in terra cristiana ogni santuario è pieno di religiosi con la mano tesa a elemosinare nel nome di Dio”.
Il romanzo è di facile lettura, scorrevole, descrittivo. La storia avvincente è raccontata in prima persona, non ci sono sbalzi temporali, segue l’evolversi delle giornate e degli eventi. Non mancano al suo interno riferimenti storici, letterari, richiami ad altre opere d’arte né spunti di riflessione per la vita di tutti i giorni, passata, presente e futura.
“Allora più che mai mi resi conto che un uomo non può affrontare da solo ciò che lo aspetta nella vita, e più tardi questo mi condusse a cercare la compagnia di gente coraggiosa, pronta ad aiutarsi l’un l’altro, senza pensare al pericolo o alla morte. Come dire: uno per tutti e tutti per uno. Anche se non ricordo dove ho sentito questa frase. Magari è mia”.
Ma la cosa più importante che non dobbiamo mai dimenticare è che:
“ESISTE SEMPRE UN OLTRE, UN’ALTRA FRONTIERA, UN ALTRO TRAGUARDO”