Recensione: “Bruciati vivi” – Ceneri di una vita incolore
Il romanzo di Daniela Stallo “Bruciati vivi”, edito da Arcadia, è un noir atipico.
L’espediente letterario del racconto è il diario, quello di Luisa, insegnante di diritto, che descrive le sue giornate di malcontento al lavoro e scorci di vita casalinga e familiare sempre uguali, incolori.
In un crescendo di noia e devastazione interiore, con Luisa che arranca sempre più e sembra volersi liberare di chi secondo lei ostacola il proprio benessere psicologico, si arriva a un drammatico epilogo.
Il diario di Luisa è un pugno nello stomaco, perché conduce il lettore nel buco nero che attanaglia sempre più questa donna. Sentimenti ed emozioni sono palesate in un crescendo di parole sempre più oscure, incattivite, intrise di giudizio.
Luisa è demotivata, stanca del proprio lavoro e della vita e non reagisce positivamente o in modo costruttivo a tutto questo.
Sprofonda.
Insieme a lei sprofonda il lettore, che vive in modo diretto e crudo la sua ostilità verso gli altri, vive il suo baratro, leggendo pagine di vita quotidiana che raccontano di giorni sempre uguali, tristi, privi di speranza, claustrofibici…
L’atteggiamento rinunciatario di Luisa si estende a tutto.
La minestrina al burro di tutte le cene, l’assenza di dialogo con il marito, la perdita graduale dei rapporti con il figlio, il logorio delle amicizie, l’indifferenza a ogni festività, l’angoscia delle vacanze, in cui nemmeno può lamentarsi dello sfacelo che vive a scuola.
La scuola, con i suoi programmi ministeriali, i progetti insensati, gli alunni portati avanti per assunto e non per merito, stipendi mal pagati, le angherie della vicepreside, la scuola come un’azienda produttiva basata sulla performance.
La demotivazione, il senso di inadeguatezza.
Luisa non si aggrappa all’amore per l’insegnamento, all’amore per gli studenti. Non si aggrappa a quello che una volta era il motore della sua vita.
Luisa non lotta. Si lascia andare alla rabbia cieca e nera verso chi quella scuola la rappresenta e ne sposa l’organizzazione, verso chi ancora prova passione per l’insegnamento.
In un misto di livore e invidia compie passi efferati.
Infine si lascia andare.
E insieme a lei ci lasciamo andare noi lettori, vinti da questa oscurità, che spesso, oberati dal lavoro, schiacciati dal sistema, abbiamo pure sfiorato.
Intrisi di umana compassione per la povera Luisa, che non ha saputo trovare la forza negli affetti e in sè stessa, riflettiamo sul senso delle nostre vite.
“All’inizio eravamo contenti, scambiammo l’indicazione della vita come una scelta e l’accondiscendenza per decisione…. Con il tempo coltivammo un’apatia nei confronti delle opportunità”
E se fosse proprio questo il punto di origine del dolore che spesso proviamo nelle nostre vite?
La scuola, il burnout, il lavoro, molti lavori, tutti i lavori, quando richiedono performances, prestazioni ottimali, questionari di valutazione, non finiscono forse per farci sentire spesso alienati?
Bisognerebbe costruire una vita fuori del lavoro piena, creativa, felice.
E poi forse, dovremmo poter portare i benefici di una parte della nostra vita nell’altra e ove possibile osare un cambiamento, scegliere altro, ma sprofondare come Luisa no.
“Nella scuola i lavoratori non sempre sono felici, e spesso neppure gli alunni.
Gli uni forse anche a causa del malessere di quegli altri”
La demotivazione è contagiosa. Non solo nella scuola.
E allora forse occorre motivarsi, tornare all’origine dell’amore per quel lavoro, addirittura all’origine dell’amore per se stessi, per non sprofondare trascinando gli altri con sè.