Recensione: “A volte nel buio” – Il silenzio della paura
A volte nel buio prendono forma le ombre delle nostre paure, strisciano lenti i mostri e i demoni delle leggende ascoltate mille volte accanto al fuoco, tramandate da padre in figlio. Leggende dove il confine tra realtà e mito è un velo sottilissimo e permeabile.
A volte nel buio, opera prima di Carmine Cristallo Scalzi, è simile a un primordiale film dell’orrore, fortemente legato alle origini letterarie del gotico e del fantastico. Il lungometraggio girato a Cicala, Presila catanzarese, un luogo geograficamente e cinematograficamente evocativo, assume in tempi rapidissimi, fin dalle prime sequenze, un’identità espressiva, tematica e stilistica ben precisa, con risultati di insolito impatto artistico. Volti intensi ed espressivi scorrono senza profferire parola, quasi fosse un film muto, ai film degli esordi infatti, somiglia come intensità espressiva e pittorica.
Un villaggio speduto, un bosco vibrante, un pugno di abitanti legati da un forte senso di appartenza, una voce bambina narrante che colma la quasi totale assenza della parola e dei dialoghi.
Si resta senza parole perché ci sono cose che non riusciamo a capire, o a interpretare. È lo stato d’animo di chi resta sorpreso, stupito o allibito.
Senza parole perché queste cose il regista prova a esprimerle con le immagini, osservando attraverso lo sguardo della macchina da presa il mondo che lo circonda, o che è dentro di lui.
Il silenzio del film è il luogo oscuro per eccellenza della paura, i cui sussurri e sospiri ospitano nell’ombra inquietudini che ne fanno trasalire gli abitanti.
In questo luogo l’arrivo degli “Stranieri” è solo un’altra calamità. Malsani nell’aspetto, pallidi, alcuni ricoperti di strisce di stoffa sanguinanti, condannati a una crescente decomposizione, vagano di notte alla ricerca di sangue umano. Sapienze contadine e antichi rituali non riusciranno ad arginare l’oscuro male che trasmettono col loro morso infetto. Non basterà il paletto di legno conficcato con sadiche martellate dal medico del villaggio nel cuore delle vittime malcapitate, per arginare il morbo che si espande a macchia d’olio non solo nel sangue, ma nell’animo stesso dei miseri abitanti del paese.
Ancor prima che un film dell’orrore, è un film sul disagio, sulla potenza del Male e sulla velleitarietà di un fragile Bene, sulla consacrazione di un Destino bizzarro e malvagio quasi a guisa di Divinità, le cui azioni sono imperscrutabili quanto crudeli, delle storie dettate da una sfiducia assoluta nel lieto fine, di un’angoscia diffusa anche nei più lievi gesti del quotidiano, ma anche della trasposizione degli oggetti anche più usuali al rango di protagonisti delle vicende, le poche, piccole cose di cui “era fatto il mondo tanto tempo fa”, e, infine, dell’immanenza della malasorte sulle misere vite umane.
Come urla rapaci nel buio, la musica, rapisce, accompagna, allerta, scorre copiosa come il sangue dalle ferite profonde inferte dai morsi, o dalle lame. Una musica, composta dallo stesso Scalzi, che è quasi presenza fisica, che si raggruma nelle ombre del film e si rapprende nel passaggio da un capitolo all’altro dell’opera.
Il regista rappresenta per suoni e immagini le paure e le angosce tipiche degli incubi dell’infanzia e delle leggende contadine.
La sua cifra distintiva è espressionista, ossia la totale applicazione dell’artista all’espressione dei propri sentimenti interiori. Il gesto del suo cinema è spesso innaturale perché diventa codice, come nel cinema muto. La voce narrante ne diviene la ridondante didascalia. Rapiti da un magnetismo arcano, suggestionati dall’intensità degli sguardi e ammaliati dal diffuso simbolismo disseminato come pulviscolo fremente in lame di luce, siamo trascinati nel buio silente.
Così, a volte nel buio, restiamo tutti ad ascoltare “devotamente ogni silenzio come la parola che vi è sempre mancata”.
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