Recensione: 1580: morte a Siviglia – Un clichè infranto coraggiosamente
1580: morte a Siviglia
di Susana Martìn Gijòn
traduzione di:
Elisa Leandri, Monica Magnin Prino, Tiziana Masoch, Ersilia Serri
Ponte alle Grazie Editore
L’incontro con un nuovo romanziere (nuovo per il lettore, ovviamente), se si è rivelato felice e se il lettore non vi ha provveduto in via preventiva, gli impone di documentarsi sul romanziere stesso con gli strumenti informatici a disposizione, e sperando di venirne a sapere di più di quanto gli sia stato rivelato dall’immancabile risvolto di copertina.
Poiché l’incontro con Susana Martìn Gijòn è stato più che felice, non ho mancato di immergermi a capofitto nelle onde di Google, bramoso di tutto quel che avrei potuto sapere intorno a questa giovane figlia di Spagna, classe 1981, giurista specializzata in diritti umani e dedita dal 2014 alla scrittura di romanzi polizieschi, o noir, o quel che è. Scrittura che in patria le ha dato un successo immediato e vasto, con romanzi dai quali sono state tratte anche delle serie televisive.
Vengo così a sapere che “1580: morte a Siviglia”, pubblicato in Spagna nel 2023, è stato scritto da Susana Martìn Gijòn dopo essersi cimentata – come tanti suoi colleghi di genere – in un buon numero di polizieschi a carattere “ciclico”, ovverosia con protagonisti che sono ospiti fissi. E che l’autrice, intervistata in occasione di un festival internazionale del libro, ha confessato di aver affrontato, con il romanzo che qui commentiamo, per la prima volta i meandri della storia di Spagna, per la precisione quelli assai fascinosi e gloriosi del “Siglo de Oro”, e di averlo fatto con un certo timore reverenziale, consapevole che il romanzo cosiddetto “storico” impone serietà e rigore documentali.
Bene. Questa informazione, non solo mi è sembrata più che sufficiente ad appagare la mia sete di notizie, ma soprattutto ha contribuito in modo determinante a solidificare in me un giudizio letterario che, nel corso dei primi scorrevolissimi capitoli del libro, mi si era presentato come un mero sospetto. O punto di domanda.
E poiché mi arrogo il merito (o presunzione) di conoscere a fondo e prediligere la letteratura di matrice iberica – compresa quella latinoamericana – dai bei tempi che furono e cioè dagli anni ’60 del secolo scorso (Arguedas, Goytisolo, Lezama Lima, Bolaño, Onetti, tanto per fare qualche nome di quei primi felicissimi incontri); poiché considero ancora oggi la Spagna come una delle terre della vecchia decadente Europa più feconde, se non la più feconda in assoluto, nel generare buona letteratura (mi basta citare Marìas, Cercas, Aramburu, Pérez-Reverte, per pretendere di non essere smentito); poiché il padre del romanzo moderno è e resterà per tutti i secoli dei secoli l’ispanicissimo Miguel de Cervantes; per tutto ciò colloco la giovane sivigliana Susana Martìn Gijòn tra i “grandi” autori spagnoli contemporanei, e più esattamente a fianco (magari un filino più in basso, in attesa dei prossimi romanzi storici) del mio prediletto Arturo Pérez Reverte.
Dirò di più, per spiegare che non a caso colloco Martìn Gijòn proprio a fianco di Pérez Reverte. Non solo l’autrice sivigliana dimostra una padronanza assoluta nel ricreare le atmosfere fascinose e contraddittorie (tra gli sfarzi del potere e il lordume maleodorante dei bassifondi e dei lupanari) della Spagna del XVI secolo. Essa infrange coraggiosamente un ben oliato e pressoché inamovibile cliché del romanzo storico spagnolo di avventura, proponendo al lettore delle eroine femmine, mandando in soffitta l’usato e abusato eroe maschio, di cui proprio il Capitano Alatriste di Pérez Reverte è campione assoluto.
E Damiana, l’eroina di “1580: morte a Siviglia”, è una prostituta. E, in sovrappiù, mulatta. Una prostituta mulatta che, nell’ovvia inerzia delle autorità di polizia e giudiziarie dell’epoca, per tutte le cinquecento pagine del romanzo si da testardamente da fare per scoprire l’autore dell’assassino di una sua collega e, collegato a questo assassinio, il segreto contenuto in una mappa e coinvolgente la corona di Spagna. E l’intricata, avvincente vicenda – abilmente suddivisa in ben centoventisette capitoletti più epilogo, veloci, rapidi e taglienti come colpi di spada dei Moschettieri di Dumas – si snoda e rimbalza all’interno di un triangolo equilatero, i cui angoli sono costituiti da: A) un rinomato postribolo posto nel lussuoso centro di Siviglia (“La Babilonia”); B) un convento delle Carmelitane Scalze, posto a un centinaio di metri dal suddetto postribolo; C) il formicolante attivissimo porto di Siviglia, da cui sta per salpare la famosissima e potentissima Flotta delle Indie (ricordiamoci che siamo all’epoca in cui Spagna e Portogallo si contendevano e dividevano l’esplorazione e lo sfruttamento del Nuovo Mondo, con la benedizione e l’indiscusso arbitrato del Papato di Roma). Per la precisione, nel corso avanzato del romanzo il mare aperto prende il posto del porto di Siviglia (la Flotta delle Indie è salpata), prendendosi con sé e concentrando sui ponti e nelle stive delle caravelle tutti i sapori, i fetori, le bestemmie, le superstizioni eccetera che fanno dei porti mercantili luoghi unici nel male, più che nel bene.
Non mi spingo oltre. Credo sia più che sufficiente avervi segnalato i dove la storia si svolge (luoghi così apparentemente e ingannevolmente diversi tra loro, e invece così apparentati dalla fondamentale caratteristica della segregazione, della costrizione), per stuzzicare il vostro appetito di lettori. Le lettrici, poi, ricaveranno un’ulteriore e specifica soddisfazione da questa vicenda che vede agire ed emergere su tutti gli altri protagonisti due donne – la prostituta Damiana e la suora novizia Catalina – amiche sin da bambine e ritrovatesi a cercare la medesima verità da due dove apparentemente opposti: un postribolo e un convento di suore.
Non dimentichiamoci che Susana Martìn Gijòn ha dichiarato di dedicare il romanzo “a tutte le donne che non hanno fatto la storia”.
Così come non voglio dimenticare – sotto un profilo squisitamente editoriale – che il titolo originale del romanzo è “La Babilonia, 1580”. Posso confessare che lo preferisco al titolo datone dall’editore italiano? Con questo: buona, anzi ottima lettura!