Più cashmere? Meno leopardi delle nevi. Uno studio su globalizzazione ed ecologia in Mongolia
Persino sui Monti Altai della Mongolia, ambiente remoto e scarsamente abitato dall’uomo, la globalizzazione dei consumi può creare impatti inattesi sulla fauna e sull’ambiente naturale.
È quanto risulta da un progetto di ricerca, coordinato dall’Università di Firenze in collaborazione con il MUSE – Museo delle Scienze di Trento e altri partner internazionali, che rivela come il massiccio aumento dell’allevamento di bestiame, primariamente causato dalla globalizzazione del mercato del cashmere, rappresenti una minaccia per alcune specie chiave dell’ecosistema, tra cui il leopardo delle nevi. Il lavoro, coordinato da Francesco Rovero, ricercatore del Dipartimento di Biologia dell’Università di Firenze, è stato pubblicato sulla rivista Biological Conservation (“Co-occurrence of snow leopard, wolf and Siberian ibex under livestock encroachment into protected areas across the Mongolian Altai” https://doi.org/10.1016/j.biocon.2021.109294).
L’obiettivo dei ricercatori era quello di quantificare gli effetti del considerevole sviluppo dell’allevamento di capre per la lana da cashmere sulla presenza di alcune specie chiave di quella regione. Negli ultimi decenni, infatti, il numero di capi di bestiame in Asia centrale è aumentato fortemente (in Cina e Mongolia in special modo) a causa dell’incremento della domanda di questo prodotto da parte del mercato globale, che vede fra l’altro l’Italia come primo paese trasformatore della lana grezza.
Lo studio è consistito nell’analisi dei dati raccolti da oltre 200 foto-trappole collocate – nel corso di campagne di studio condotte tra il 2015 e il 2019 – in quattro aree montane della Mongolia occidentale, che spesso superano i 4000 m di altitudine.
“L’obiettivo delle nostre analisi – spiega il primo autore dello studio, Marco Salvatori, dottorando di ricerca presso l’Università di Firenze e il MUSE – era di capire se le mandrie di animali domestici, fotografate da oltre la metà delle foto-trappole piazzate, agissero da fattore di attrazione, quale fonte aggiuntiva di prede, o di repulsione per i due grandi carnivori dell’area, il leopardo delle nevi e il lupo, e se inibissero la presenza dello stambecco siberiano, principale preda del leopardo delle nevi in queste aree”.
“I nostri risultati parlano chiaro – afferma il coordinatore Francesco Rovero -: la pastorizia diffusa disturba il leopardo delle nevi, felino sfuggente e adattato a predare animali selvatici in terreni scoscesi, spingendolo ad evitare le zone utilizzate dalle grandi mandrie di bestiame, che sono però sempre più diffuse anche all’interno delle aree protette. Al contrario il lupo sembra essere attratto dagli animali domestici e questo genera il rischio di conflitti con i pastori.”
“Il leopardo delle nevi – precisa Valentina Oberosler, ricercatrice post-doc del MUSE, che ha contribuito allo studio – è il meno conosciuto e tra i più rari dei grandi felini: la sua distribuzione è frammentata, le sue popolazioni in diminuzione. Vive solo in catene montuose remote dell’Asia centrale, dal Nepal alla Siberia: si stima che ne sopravvivano poche migliaia di individui. Per questo è importante capire le cause principali del suo declino e fornire raccomandazioni utili alla corretta gestione dell’ambiente in cui vive”.
“Per il futuro – conclude Rovero – per non rischiare di compromettere i fragili equilibri biologici, sarà importante favorire pratiche di allevamento maggiormente compatibili con la sopravvivenza a lungo termine dei grandi mammiferi delle montagne dell’Asia centrale”.
La ricerca è frutto di una collaborazione tra varie istituzioni europee: oltre all’Università di Firenze e il MUSE, vi hanno partecipato il CNR, l’Università di Lubiana, l’Università di Losanna e alcuni enti in Mongolia tra cui la ONG Wildlife Initiative, che ha coordinato la logistica in loco, e le autorità nazionali competenti. Tra i principali finanziatori del programma la Fondazione statunitense Panthera e, in Italia, la Fondazione Arca del Parco Natura Viva.