La luna storta di Francesco Tozzi – Una settimana senza luna
Una settimana senza luna
La storia è questa: una settimana fa mi sono trovato, per la prima volta, al centro di una questione giuridico-legale che mi ha totalmente destabilizzato.
Detta destabilizzazione è stata causata dal fatto che non riuscivo più ad avere un secondo libero: non potevo più fidarmi di nessuno, e avevo bisogno unicamente di informazioni che fossero legalmente inoppugnabili.
Non è finita: ogni giorno succedeva qualcosa di nuovo che vanificava (o quasi) il lavoro del giorno precedente. Ho pensato “fino a che punto possono diventare cattivi gli esseri umani?”; ho pensato all’assoluta mancanza di senso di una chiusura d’anima, della buona volontà, del buon senso; ho pensato cose del tipo “una persona stupida non può essere una persona simpatica, e bisogna diffidare dalle persone stupide, perché tali resteranno anche in situazioni che, al contrario, richiedono elasticità e pragmatismo”.
La cosa è durata circa 10 giorni, 10 giorni in cui ora dopo ora mi ripetevo: “non è possibile che uno come me possa farsi coinvolgere a tal punto da certe cose”.
Non so come se ne siano accorti i miei, ma a un certo punto, a pranzo, mio padre ha cominciato a parlare di famiglia e io, come a raccogliere la sua provocazione, ho aperto il grande mobile del salotto e ho preso il cofanetto delle fotografie. Guardo sempre le fotografie della mia famiglia, mi piace, mi rilassa. Quel giorno ne ho trovate alcune che non avevo mai visto: me, mio fratello e mia nonna nel 1989; il compleanno di mio nonno (io non ero ancora nato, mia mamma teneva in braccio mio fratello) con tutti i nipoti e alle sue spalle e lui che soffia sulla candelina di una probabile millefoglie.
Sotto a queste, a colori, c’erano altre foto molto più vecchie, in bianco e nero.
Una mi ha proprio chiamato: mio nonno, probabilmente alla fine degli anni ‘60, di fronte casa nostra, appoggiato a una delle sue tante macchine, con la sigaretta in bocca, vestito con una sahariana bianca, i pantaloni larghi, comodi, neri e gli immancabili occhiali da sole.
“Si vestiva sempre così, ci stava comodo”.
“Gli somigli” ho detto a mio babbo.
Lui allora mi ha guardato e mi ha detto: “no, sei te che gli somigli”.
Ho guardato meglio la foto, mio babbo nel frattempo se ne era andato a caccia: dato che era piccola, ho preso la lente di ingrandimento. Ad un certo punto mi sono spaventato: ho avuto la certezza che mio nonno mi stesse guardando, da dietro ai suoi occhiali neri, come per dirmi: “beh?”.
Niente.
Ho distolto lo sguardo, ho guardato di nuovo. Riecco la sensazione. In quel momento ho capito tante cose: che farsi capire è arduo; che molte persone, per proteggersi, mentono; che noi non siamo responsabili di nessun comportamento altrui e che ciascuno reagisce istintivamente, a seconda di “chi ha dietro di lui/lei”.
È stata una cosa alla Ken il guerriero, avete presente la puntata della trasmigrazione attraverso Satori?
Finalmente ho tirato su la faccia dal secchio dove l’avevo ficcata, immersa. A prendermi per i capelli, un signore con la sahariana bianca e i pantaloni neri, la MS (una delle 40-50 che si fumava ogni giorno) e gli occhiali neri.
Ho preso il mio daimon, l’ho messo nella tasca della giacca. Sono uscito.
Per la prima volta in 36 anni, è stato Natale.