La luna storta di Francesco Tozzi – Meglio di Marcello
Meglio di Marcello
Rumorosissimo rumore di fondo, forse il mare, forse chissà; due individui su due rive opposte; qualcuno dietro loro li chiama, anzi li richiama.
Gli individui si parlano; ma non si capiscono.
Occhi, polsi, vene di entrambi sono attraversati, sferzati, quasi torturati dall’inquietudine.
L’inquietudine: una delle poche cose, credo, di cui si possa e si debba ancora parlare; e di cui invece non si parla mai.
Siamo inquieti perché vorremmo fare e non facciamo; perché vorremmo agire concretamente ma qualcosa ci blocca; perché sentiamo il mondo scivolarci dalle mani come una corda. Siamo inquieti perché vediamo una schiera di incapaci agire senza il permesso di nessuno, come dei ragazzini, ingenui e maliziosi, e – badate bene – non vorremmo essere loro, loro li odiamo; ma ci guardiamo da fuori e diciamo: “e io?”
“Uno come me dove potrà ficcarsi? Dove gli si è apprestata una tana?” si chiedeva Majakosvskij.
A salvarci, a tenderci una mano, è il mondo delle opinioni: uno scatolone pieno di distintivi prêt-à-porter da indossare a seconda dei casi, delle situazioni. Le opinioni sono le cose più inutili che esistano, eppure tengono viva questa società che non riesce a mettersi d’accordo con niente e nessuno ma dispensa consigli come fossero caramelle.
Chiudersi, “polarizzarsi” (come direbbero i cervelloni) è l’unica, organica soluzione, la prima risposta che viene da dare, la reazione più naturale.
L’altra soluzione è fingere: fingere bontà, comprensione, fingere di schierarsi col bene, con la democratica convivenza civile, deponendo i contrasti, vivendo una vita che non è nostra, convinti di non sbagliare ma sbagliando tutto, in fondo, respirando coi polmoni, il naso e la bocca di altri, che non conosciamo.
Una terza soluzione ci sarebbe: guadare il fiumiciattolo e raggiungere la riva opposta da cui l’altro (o l’altra) continuano a parlarci senza fermarsi mai; ignorare le abitudini, riporre i cliché e sporcare il bel vestito bianco con cui abbiamo presenziato all’orgia della notte prima con l’acqua e le alghe e la fanghiglia, per raggiungere quella voce lontana, che arriva a noi solo amplificata da due manine bianche, candide, semplici.
Scopriremmo che il detto “la vita è movimento” vuol dire proprio quello che sospettavamo: compiere il passo più scomodo, meno conveniente, più difficile, più imbarazzante, più pericoloso, più compromettente; ma vero. Vivo. Che porta conseguenze vere, vive.
Raccontare all’altro quello che siamo e che vorremmo essere, da una riva all’altra di un piccolo fiumiciattolo, sperando di essere uditi e compresi è quello cui questa società vorrebbe abituarci.
Fare di ogni singolo respiro un tentativo di vita vera, invece, è la missione dell’uomo.
Guadare il fiume, raggiungere l’altra riva. Fuggire le altre voci.
Vivere, vivere, vivere.