La caotica scrivania di Lorenza – L’odio
L’odio
Viviamo in un’età greve di odio: odio politico, odio economico, odio di genere, odio per le diversità, odio generazionale, odio per le opinioni non allineate con le nostre. Credevamo, un tempo, che la Rete sarebbe stata il luogo della «Grande Conversazione», della condivisione, della cosiddetta «Intelligenza Collettiva». Ci siamo trovate alle prese con un luogo gonfio di risentimento, abitato da haters, cyber-bulli o, più semplicemente, gente non abituata ad ascoltare, a non permettere che i propri pregiudizi siano toccati dal dubbio o dalla disponibilità al confronto.
La violenza agita a parole non è meno crudele. Basta una scintilla e, di commento in commento, post dopo post, video dopo video, storia dopo storia, l’onda oscura dell’intolleranza si dilata, si propaga, si gonfia e finisce per tracimare dagli schermi dei nostri computer e dei nostri smartphone fino nella quotidianità, nelle strade, nelle case, nelle piazze. L’ironia si confonde con il sarcasmo, il desiderio, pur legittimo, di sapersi ascoltati, di non essere irrilevanti, si trasforma in incapacità di argomentare, in aggressività fine a sé stessa, in impotenza rabbiosa.
I social network, nel loro nome, recano in sé l’idea di «socialità» e di «rete»: dovrebbero essere luogo di relazioni, troppo spesso sono teatro di polarizzazione, di individualità atomizzate che si scontrano le une con le altre, ma mai si incontrano veramente.
Molti si sono interrogati su questa deriva. La dinamica è complessa, non è riconducibile unicamente alle responsabilità individuali, né criticabile in nome di una generica etica che divide a spanne il giusto dallo sbagliato e nega il conflitto a prescindere. Perché il conflitto dovrebbe essere in ogni caso il sale della democrazia (altrimenti avremmo la dittatura del pensiero unico), ma che cosa accade quando gli strumenti di gestione condivisa delle differenze vengono meno e quello che si ottiene non è la coscienza della complessità (dei punti di vista, delle relazioni, delle identità), ma la semplificazione delle forze in gioco, la divisione in «buoni» e «cattivi» senza mediazione possibile? Va da sé che i cattivi sono sempre gli altri, quelli che non appartengono alla nostra tribù, alla nostra «bolla», alla cerchia ristretta di chi la pensa come noi. Se la società, come auspicava la Thatcher, non esiste ed esistono solo gli individui, è fatale che nella solitudine che ne consegue si cerchi appoggio e riconoscimento in quelli che avvertiamo simili, e che tutti gli altri diventino, automaticamente, nemici da abbattere, a parole o nei fatti. L’odio, la rabbia, sono figli della paura. E non è forse la paura ad essere la cifra distintiva del nostro mondo? La paura di non farcela, di essere spazzati via, di ritrovarsi fra i perdenti, gli esclusi, gli emarginati, in un mondo che esalta di continuo il mito del successo, dell’autoaffermazione, della lotta per la sopravvivenza in una specie di nuovo darwinismo sociale in formato digitale.
Dunque, accanto all’odio, emergono altri sentimenti: la stanchezza, la depressione, l’ansia. C’è chi odia. E c’è chi si lamenta. O tace. Perché talvolta il silenzio, in un contesto dove tutti urlano e nessuno si prende la briga di ascoltare sul serio, sembra l’unica risposta possibile. Ma, allo stesso tempo, il silenzio diventa un’ammissione di impotenza.
E si torna daccapo: allo sconforto e alla disillusione.
Eppure, bisognerà uscire dall’impasse. Io non credo che i cosiddetti haters, quelli che lasciano commenti violentissimi sui temi più disparati (e poi, magari, sulle loro bacheche condividono gattini e preghiere alla Madonna), quelli che troppo facilmente ci spieghiamo ricorrendo all’effetto Dunning-Kruger (e va da sé che nel giudicarli, noi ce ne riteniamo immuni: ma sarà davvero così?) siano davvero malvagi: manipolati, magari, vittime, prima che carnefici, del populismo dilagante, dell’ignoranza, della demagogia. Credo che dovremmo recuperare le parole di Spinoza:
Non deridere, non compiangere, non disprezzare, ma comprendere le azioni umane.
Credo, infine, che dovremmo riconoscere il valore politico della gentilezza e dell’empatia e ricordare più spesso l’antico motto latino:
Homo sum: humani nil a me alienum puto (Sono un essere umano e niente che sia umano lo ritengo a me estraneo).
Sono consapevole che queste pie intenzioni potrebbero essere ascritte alla categoria del «buonismo», etichetta orrenda che bolla ogni tentativo di ragionevolezza come falso, ipocrita, nel migliore dei casi irrealistico, nel peggiore presuntuoso e vigliacco. Ma qui si apre un altro problema: quando, esattamente, abbiamo cominciato a subire la manipolazione del linguaggio, in virtù della quale il semplice richiamo alla civile convivenza diventa, appunto, una sciocchezza coltivata dalle anime candide, vere o supposte che siano?
Ne riparleremo.