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La caotica scrivania di Lorenza – La scuola è donna (ma non è una buona cosa per le donne)

La caotica scrivania di Lorenza - La scuola è donna (ma non è una buona cosa per le donne) La caotica scrivania di Lorenza - La scuola è donna (ma non è una buona cosa per le donne)

La scuola è donna (ma non è una buona cosa per le donne)

Il tragico femminicidio di Giulia Cecchettin per mano di un coetaneo ha suscitato grandissima emozione e molte reazioni, sia fra i comuni cittadini che nelle forze politiche. Si chiede a gran voce di reagire, di smascherare gli inganni, gli alibi e le mistificazioni del patriarcato. E soprattutto si domanda che qualcuno si faccia carico del difficile compito di educare i giovani a diversi modelli di relazione, liberi da stereotipi violenti e discriminatori. Il Ministro Valditara ha promesso il pronto intervento della scuola in quella che è stata descritta come una vera emergenza educativa. Anzi, ha affermato che in realtà il piano di intervento si stava già sviluppando come reazione allo stupro di Palermo e ai fatti di Caivano. Ma…

Educare alle relazioni: la proposta di Valditara

Ma, alla fine, la montagna, almeno per il momento ha partorito il topolino. Il Ministro dell’Istruzione e del Merito ha emanato tramite direttiva non vincolante per le scuole il piano «Educare alle Relazioni»: uno scarno documento di tre pagine e cinque articoli, che prevedono, a partire dal prossimo anno scolastico, l’attivazione su base volontaria di percorsi di 30 ore extracurriculari. Giova leggere direttamente i due commi dell’art.2, intitolato «Modalità attuative» (le evidenziazioni sono mie):

1.Le istituzioni scolastiche, nell’ambito della loro autonomia, possono attivare iniziative progettuali che prevedano il coinvolgimento attivo degli studenti anche in gruppi di discussione coordinati da docenti, per realizzare un processo di maturazione educativa, con il seguente percorso approvato dagli organi collegiali: a) indicazione di un docente referente per ogni istituzione scolastica coinvolta; b) costituzione di gruppi di discussione – focus group – aventi come unità funzionale di riferimento la classe. Si opererà su ogni singola classe individuata dal dirigente scolastico di ciascuna scuola aderente, previa acquisizione del consenso dei genitori e degli studenti coinvolti; c) individuazione, per ogni gruppo-classe, di un docente che possa fungere da animatore moderatore; d) svolgimento di un’adeguata formazione di ciascun docente-moderatore, secondo un programma che il Ministero dell’istruzione e del merito predispone anche con il supporto di organismi scientifici e professionali.

2. Per consentire il necessario coinvolgimento nel progetto anche delle associazioni delle famiglie è potenziata l’attività, presso il Ministero dell’Istruzione e del Merito, del Fonags (Forum nazionale delle associazioni dei genitori della scuola) incardinato presso la Direzione generale per lo studente, l’inclusione e l’orientamento scolastico. Al Fonags è attribuito il compito di raccordare le modalità di attuazione dei percorsi progettuali concernenti l’educazione alle relazioni con le esigenze e le osservazioni migliorative delle rappresentanze dei genitori.

Verrebbe da chiedersi: tutto qui? Il solito progettino che le scuole possono/non possono attuare, non per tutti gli studenti/studentesse, ma solo per alcuni e previo consenso delle famiglie, con la usuale formazione più o meno volontaria dei docenti, formazione predisposta con il supporto di «organismi scientifici e professionali» non meglio identificati, mentre la teoria a supporto di questi «focus group» è stata studiata e applicata (ma mai in contesti educativi) a partire dagli anni Cinquanta, la cosiddetta «metodologia Balint».

Un’alternativa fuorviante

Eppure, il dibattito su quello che potrebbe e dovrebbe essere il ruolo della scuola a contrasto del sessismo, della violenza di genere, della discriminazione è stato vivissimo, non appena è stata ventilata la possibilità che venisse introdotta l’«ora di educazione affettiva». La chiacchiera social ha tentato di rispondere alla domanda di fondo, schiacciandosi di fatto su quella che, a mio avviso, è un’alternativa fuorviante: il compito di educare alla gestione corretta di sentimenti e relazioni spetta prioritariamente alla famiglia o alla scuola? Da una parte, molti docenti (e non solo) hanno rivendicato la funzione educativa che di per sé le «discipline», e nello specifico le discipline umanistiche (letteratura, filosofia, arte), avrebbero, se solo non fossero compresse e svilite dal proliferare disorganico di progetti e progettini senza coerenza, legati non a caso alle varie «educazioni» (civica, alla salute, alimentare, stradale…) di cui la scuola viene costantemente (e confusamente) chiamata a occuparsi. Dall’altro, è difficile negare alla scuola un ruolo fondamentale fra le esperienze che finiscono per costruire l’identità di ciascuno: fondamentale, certo, ma non unico. Agiscono, nelle nostre vite, la famiglia di origine, il gruppo dei pari, i messaggi veicolati dai media, gli incontri fortuiti con persone, immagini, letture, musiche. L’alternativa secca è fuorviante perché non tiene conto della fatale complessità dell’esperienza di ciascuno, un’esperienza che si colloca in un sistema pervasivo, del quale è difficile avere consapevolezza finché ci troviamo incastrati come ingranaggi nel meccanismo sociale, che, piaccia o non piaccia, ancora è condizionato da logiche patriarcali dure a morire.

Di fronte a questa complessità, a questa difficoltà, l’introduzione di un’ora settimanale di educazione affettiva, tanto più nei termini indicati da Valditara, sembra essere il classico pannicello caldo che scarica sulla scuola, per intero, una responsabilità che non può essere solo sua. Soprattutto se si considera che la scuola, per molti aspetti, è parte del problema, indipendentemente dalla buona volontà dei singoli, siano essi docenti, dirigenti illuminati o genitori particolarmente sensibili.

La femminilizzazione della scuola

Il discorso sarebbe estremamente complesso, ma vorrei limitarmi a un’osservazione che, mi pare, nel convulso dibattito di questi giorni nessuno ha ancora evidenziato: la femminilizzazione sempre più accentuata della professione docente, presente in tutta Europa, ma particolarmente evidente in Italia. I dati parlano chiaro e sono impietosi: man mano che si sale di grado nelle scuole e aumenta il prestigio percepito del ruolo docente, la presenza femminile si abbassa (solo il 21% di docenti ordinari donne nelle Università, a fronte del 97% di presenza femminile della scuola dell’infanzia, per dire). Quali sono le ragioni? Fondamentalmente due: tradizionalmente, la professione di insegnante viene vista come la più idonea a conciliare cura della famiglia (ancora in larga parte sulle spalle delle donne) e lavoro (non è più così, ma l’idea della prof che lavora solo quattro ore al giorno e dopo passa il pomeriggio dal parrucchiere per poi andarsene a casa a cucinare succulenti manicaretti per figli e marito, è dura a morire nel comune pregiudizio); inoltre, l’insegnamento, dal punto di vista economico e di prestigio, non è particolarmente appetibile per un maschio laureato, in un contesto che, piaccia o non piaccia, ancora è condizionato dall’idea del pater familias che si fa carico del mantenimento di prole e consorte. In altri termini, la femminilizzazione della scuola (che, non a caso, non riguarda l’Università) è spia ulteriore del costante gender gap presente nel mercato del lavoro in Italia. Dal momento che il mestiere di insegnante non gode più di grande prestigio, né è attraente economicamente, finisce per diventare appannaggio soprattutto delle donne, alle quali per tradizione si tende a delegare i compiti di cura e assistenza, rendendo difficoltoso il loro accesso nei luoghi dove si esercita il potere economico, politico, culturale.

Tutto questo potrebbe sembrare un’inutile dissertazione sociologica, ma in realtà, nelle circostanze attuali, rivela un drammatico cortocircuito fra buone intenzioni e brutale realtà dei fatti. Alla scuola si vorrebbe affidare il compito di scardinare sessismo e machismo, ma la scuola per prima rischia di essere un «recinto rosa» dove le logiche del patriarcato sono operanti in modo sotterraneo ma non per questo meno efficace: un luogo di cura emotiva ed affettiva, dove la cura però è affidata, secondo tradizione, a figure femminili, mentre gli uomini sono in larga percentuale impegnati altrove, a perseguire traguardi di carriera ben più appetibili rispetto al «semplice» (che poi semplice non è, lo sappiamo bene) lavoro di insegnante. Quale effetto possa avere questa situazione sugli studenti e sulle studentesse, che hanno antenne sensibilissime per cogliere le contraddizioni del mondo adulto, lascio immaginare. Che l’identità maschile sia in crisi lo dimostrano, fra l’altro, i fatti drammatici di cui siamo stati tutti testimoni. Ma a questa crisi, forse, occorrerebbe rispondere anche con modelli maschili di riferimento che dimostrino nei fatti e nelle pratiche due cose: che la cura della relazione è compito, appunto, anche degli uomini; e che la cultura ha un altissimo potenziale emancipatore, rispetto a ruoli codificati e stereotipi di genere. Ma sono proprio questi modelli ad essere pochi (e socialmente scoraggiati) nelle nostre scuole.

Soluzioni: non facili e non a costo zero

Soluzioni? Al solito, non facili e, di sicuro, non a costo zero. A livello simbolico: occorrerebbe scardinare l’idea, ancora pregiudizialmente presente, che le donne siano «geneticamente» più adatte a farsi carico della dimensione affettiva e relazionale connessa all’insegnamento. Insomma, andrebbe decostruito lo stereotipo deamicisiano della «maestrina dalla penna rossa» (così come l’idea dell’insegnamento come «missione», che è uno degli inganni più duri a morire: l’insegnamento è una professione e, come tutte le professioni, andrebbe esercitato in scienza e coscienza, non con il fervore del missionario pronto a lavorare gratis, o quasi, in nome dell’ideale). A livello materiale: se davvero il ruolo della scuola è così fondamentale, allora riconoscimento economico dei professionisti e delle professioniste che lavorano nel settore dovrebbe essere conseguente. A livello sociale: dovrebbero essere smontate le narrazioni mediatiche che tendono a presentare la scuola come un luogo perennemente problematico, non perché i problemi non ci siano (eccome!), ma perché vengono sistematicamente oscurate le esperienze positive che in un contesto difficile, caratterizzato da tagli e scelte politiche confuse e poco lungimiranti, molti docenti e dirigenti conducono nelle rispettive realtà. Agendo su questi tre livelli, con grande pazienza, si potrebbe contribuire a rendere la scuola un posto davvero più inclusivo, dove donne e uomini, insieme e in modo paritario, si assumono il difficile compito di traghettare le nuove generazioni attraverso il mare tempestoso della contemporaneità.

Fonti consultate

Gatti, Irene. 2019. «La scuola è donna. Opportunità o problema? | BENECOMUNE». BENECOMUNE.net (blog). 28 marzo 2019. https://www.benecomune.net/rivista/numeri/donne-lavoro/la-scuola-e-donna-opportunita-o-problema/.

OECD. 2017. «Gender Imbalances in the Teaching Profession». Paris: OECD. https://doi.org/10.1787/54f0ef95-en.

Ottaviano, Cristiana; Persico, Greta. «Maschilità e cura educativa». Genova University Press, 2020 (reperibile all’indirizzo https://gup.unige.it/sites/gup.unige.it/files/pagine/Maschilita_e_cura_educativa_ebook_indicizzato.pdf ).

Viviano, Francesca; Carta, Marta; de Philippis, Lucia; Rizzica, Eliana. 2023. «Le disparità di genere nel mercato del lavoro italiano: alcune evidenze e implicazioni di policy | F. Carta, M. De Philippis, L. Rizzica ed E. Viviano». Lavoce.info (blog). 17 novembre 2023. https://lavoce.info/archives/102830/disparita-di-genere-nel-mercato-del-lavoro-come-cambiare-rotta/.

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