La caotica scrivania di Lorenza - E voi, odiate i Måneskin? La caotica scrivania di Lorenza - E voi, odiate i Måneskin?
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La caotica scrivania di Lorenza – E voi, odiate i Måneskin?

 

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E voi, odiate i Måneskin?

Sgombro subito la discussione da un possibile equivoco. Questo articolo prende le mosse dal fenomeno «Måneskin» e dalle polemiche, di vario tipo e natura, che la rapidissima ascesa del gruppo romano, dagli inizi come buskers per le vie della Capitale, ai fasti dell’Eurovision, passando per la tappa quasi obbligata dei talent (tappa che taluni interpretano come una facile scorciatoia), ha suscitato sia fra gli «addetti ai lavori» (altri musicisti, giornalisti, critici etc), sia fra semplici consumatori di musica. Tuttavia, qui non analizzerò, valuterò, recensirò la «qualità musicale» della band: lo scopo, se possibile, non è quello di entrare a gamba tesa nel dibattito che ruota attorno ai Måneskin fra polarizzazioni varie, e tutte più o meno scontate (sono rock? sono pop? sono spontanei, creativi, talentuosi, originali? Sono derivativi, costruiti dall’industria culturale, un mero prodotto di marketing, un’espressione del consumismo dilagante? ci raccontano la verità dei giovani o, al contrario, il loro ribellismo è una posa furbetta che si nutre di stereotipi ben collaudati e in definitiva inoffensivi?).

La domanda di fondo che mi faccio è un’altra: qualunque cosa siano i Måneskin, e qualunque sia il mio giudizio a proposito della loro proposta musicale, una discussione divampata ovunque con tanta virulenza che cosa dice rispetto al modo in cui si costruiscono giudizi e pregiudizi di valore in un pubblico sempre più polarizzato e «tribalizzato» per età, capitale culturale, appartenenza sociale?

C’è una prima elementare considerazione da tenere presente. Siamo stati tutti giovani, e tutti, dal secondo dopoguerra in poi, abbiamo fatto parte di un mondo che, almeno in apparenza, ha reso la giovinezza un valore in sé. Nel 1963, un ventiduenne Dylan, che certo non prevedeva di arrivare agli ottant’anni addirittura consacrato dal Nobel, avvertiva che «i tempi stavano cambiando» e lanciava un cordiale invito a tutti i rappresentanti dell’establishment allora dominante: mollate la presa, non siete in grado di capire che cosa sta succedendo sotto il vostro naso. E ai genitori diceva, più o meno (traduco liberamente da «The times they are a’changing»): la vecchia strada sta scomparendo rapidamente e, se non siete in grado di dare una mano, è bene che vi togliate di mezzo. Perché i vostri figli e le vostre figlie non sono più ai vostri ordini, voi non potete criticare quello che non siete in grado di capire, il presente di adesso sarà presto passato e chi è ora primo domani sarà fatalmente ultimo.

Ma, com’è ovvio, gli anni passano per tutti e il movimento incessante di cambiamento che ha travolto il vecchio ordine, per sua natura è destinato a portare via nel suo flusso incessante qualunque cosa sia stata edificata sulle macerie del passato. Si potrebbe dire che il tratto più caratteristico ddalla seconda metà del XX secolo in poi sia stata, appunto, l’accelerazione: la trasformazione della cultura e dell’immaginazione erode rapidamente qualsiasi paradigma di valore tenti, velleitariamente, di imporsi come definitivo o duraturo. In questo quadro, la normale contrapposizione fra generazioni tende a radicalizzarsi: una radicalizzazione favorita ed esasperata oggi dalle logiche del marketing, che costruisce a tavolino segmenti di pubblico relativamente impermeabili e ne fa target preferenziali di prodotti, culturali o supposti tali, costruiti ad hoc. La musica non fa eccezione, anzi, in certa misura rappresenta uno scenario ottimale per introdurre polarizzazioni «di gusto» funzionali alla vendita.

Eppure, mai come oggi la musica, tutta la musica, anche quella più di nicchia, è disponibile agli ascolti, attraverso i canali più diversi: le piattaforme di streaming, certo, ma anche i social network, purtroppo governati dagli algoritmi che tendono a rinchiudere gli utenti in bolle autoreferenziali dalle quali è difficile uscire, se non con un gesto di voluta curiosità, del tutto individuale, per quanto esiste al di fuori dalla propria comfort zone, ritagliata spesso su basi anagrafiche che prescindono da criteri di effettiva qualità. I cinquantenni sono indotti ad ascoltare per lo più quello che altri ritengono sia adatto a loro, e così i Millennial, e così la Generazione X o la Generazione Z. Difficile che la reciproca conoscenza possa svilupparsi, in un contesto che volutamente favorisce conformismo e contrapposizione.

Ed ecco, arrivano i Måneskin, che nascono in televisione (il media tuttora più generalista fra tutti), ma, al tempo stesso, sono stati sufficientemente abili da conquistarsi una visibilità diffusa e trasversale. Certo, sono un «prodotto» che mira ad intercettare quella «retromania» che alberga fra i cultori più superficiali del rock, ma, al tempo stesso, sono giovani, «fluidi», abili nel gestire la loro presenza on line sui social, e quindi potenzialmente attraenti anche per una generazione che della grande storia della musica popolare dagli anni Cinquanta a oggi sa poco o nulla e quindi non è in grado di riconoscere quanto il loro stile sia in definitiva derivativo. Eppure, al tempo stesso, hanno qualche asso nella manica: il carisma e le doti vocali del frontman, il fatto che sappiano suonare e gestire la loro presenza sul palco, e, infine, alle spalle un management di tutto rispetto.

Tutto questo non impedisce che siano oggetto di grande ostilità, anzi, ogni volta che si ha notizia di un loro successo internazionale (ultimo la vittoria per la categoria video rock dell’edizione 2023 degli MTV Video Music Awards, che ha visto la loro affermazione su mostri sacri come i Metallica, i Foo Fighters, i Muse, i Linkin Park), i social, specialmente in Italia, si popolano di commenti astiosi che lamentano la decadenza dei tempi e li insultano in ogni modo possibile.

Ora, bisognerebbe forse ammettere che sarebbe difficile e probabilmente ridicolo tentare oggi di «rifare», che so, i Pink Floyd o David Bowie. Ci sono stati e, a dire il vero, ci sono ancora, se in fondo la musica è, tutta, «contemporanea». Paragonandola alla letteratura, non è che se uno legge un romanzo pubblicato oggi, è impossibilitato, in qualche modo, a leggere un’opera di dieci, venti, cinquanta, cento anni fa e ricavarne il giusto godimento intellettuale. Ma, a parte questo (ognuno si costruisca su Spotify la playlist che vuole), non credo nemmeno che i Måneskin ambiscano a tanto. Più che rocker duri e puri, sono pop, esattamente come erano pop tanti performer che venivano ascoltati dalla massa in alternativa (o in parallelo) agli dèi musicali del passato. Se facessero trap, sarebbero insultati allo stesso modo, ma qui si aggiunge il fastidio perché osano una proposta che ricicla in modo «facile» materiale del passato, ritenuto sacro e intoccabile, e ci riesce con innegabile successo. Come se non fosse mai esistito un rock semplificato e inoffensivo, adatto ad un consumo globale: cosa fanno i Måneskin di diverso da quello che hanno fatto divi e divette anni ’90 arrivati al successo grazie a mamma MTV? I Nickelback, per dire, sono stati a lungo la «band più odiata di Internet», accusati di aver svenduto al mercato la nobile eredità del grunge: vi suona familiare?

Credo che, alla fine, ci sia una bella dose di snobismo nelle critiche che li bersagliano, unita ad una bella quantità di invidia per la loro fama planetaria, visto che sono arrivati là dove in fondo nessuna band italiana è arrivata, fra l’altro scardinando lo stereotipo che ci vuole tutti figli di Al Bano e Romina. E non solo: esiste anche il conformismo. Dire che i Måneskin sono meteore, sono mediocri, sono falsi, sono frutto di un’operazione a tavolino che penalizza il merito e produce solo spazzatura, è diventato un vezzo alla moda, un luogo comune, che si autoalimenta per imitazione: tutti lo ripetono e quindi mi accodo, così almeno faccio la parte di quello colto che ascolta la musica giusta. Senza contare un pizzico di odio verso i «giovani», non di rado dipinti come debosciati ignoranti che ormai non sanno distinguere la cioccolata dagli escrementi: gli ex-adolescenti non tollerano, spesso, gli adolescenti attuali, in nome della mitizzazione dei loro «anni eroici», senza pensare che, in fondo, «oggi» è figlio di «ieri» e l’abusata formula «ai miei tempi…» appare abbastanza patetica in bocca a chi, da ragazzo, dichiarava che non bisognava fidarsi di chi avesse più di trent’anni. Sì, lo diceva, almeno finché i trenta, e poi i quaranta, i cinquanta, i sessanta, non sono scoccati anche per lui: e ora ha qualche difficoltà a mollare la presa.

Penso che i Måneskin vadano semplicemente accolti per quello che sono: certo, un prodotto, ma in definitiva un buon prodotto pop, forse addirittura un ottimo prodotto pop, che non fa nulla di più di quello che promette. Vista la loro giovane età, non è prevedibile la loro evoluzione futura: magari scompariranno, magari saranno davvero la chiave per ringiovanire il rock, chi può dirlo? Leggo che Victoria ama i Mötley Cüre, chissà che qualcuno dei suoi fan non parta da qui per conoscere altro. Per il momento, lasciamoli suonare, lasciamoli arrivare alle vette delle classifiche degli ascolti e degli streaming, e congratuliamoci con loro per la loro irresistibile ascesa. Poi, ognuno apra il proprio Spotify e ascolti quello che vuole: oggi più che mai, ne ha la piena facoltà.

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