Intervista: Mariano Tufano, il costume designer vincitore del David di Donatello
Mariano Tufano, napoletano classe 1968, vince un David di Donatello come miglior costumista a 38 anni, per Nuovomondo di Emanuele Crialese. Ma la sua passione nasce da lontano.
Lo incontriamo davanti a un caffè per parlare di arte, storia, del suo passato e di tutto ciò che gli riserva il futuro.
Quando si segue un festival, nelle premiazioni si vedono assegnare statuette ai costumisti, ma lo spettatore medio ignora cosa faccia realmente un costumista….
Il costumista è uno strumento del regista, è un professionista che racconta i personaggi con il proprio lavoro, che è molto lontano dalla moda, di cui pure mi sono occupato, e dai vestiti nell’accezione più corrente del termine. Con l’ausilio dell’abbigliamento e del trucco e parrucco crea un look che definisce un personaggio. A me piace pensare che il costumista sia un creativo che, attraverso le parole del regista, crea un mondo completamente “altro”, interpreta attraverso la sua opera i personaggi, realizza un mondo visivo che è affine a quello del regista.
E perché hai voluto fare il costumista?
Me lo chiedo ogni volta! (ride). Il mio percorso nasce da quando ero bambino: avevo 9 anni quando i miei parteciparono a una festa in maschera. Entrammo in una vecchia sartoria di Napoli perché loro volevano noleggiare dei costumi. Rimasi folgorato. Credo che mi interessi certo la rilettura dei personaggi, ma soprattutto la ricerca legata all’ambito storico. E’ il risvolto “colto” del mio lavoro, conoscere cosa indossassero le persone del passato, il perché dell’utilizzo di certi indumenti, certi tessuti. E’ una cosa che mi ha sempre affascinato e ha dato il via al percorso che mi ha portato dove sono adesso.
Se un ragazzo ti dicesse “voglio fare il costumista”, cosa gli suggeriresti di fare?
Vorrei innanzitutto precisare che non c’è bisogno di frequentare scuole specifiche, io non ne ho mai fatta una. Ho studiato arte e ho sostenuto solo un piccolo esame di costume all’Accademia d’arte. Per cui a un ragazzo o una ragazza che volesse intraprendere questa professione direi che sì, può seguire una scuola specifica di costume legate al cinema o al teatro (ce ne sono tante, specialmente a Roma o anche alla Scala) ma soprattutto bisogna essere appassionati di arte, guardare, essere curiosi e approfittare dell’ausilio del Web che consente di avvicinarsi al costume in maniera veramente semplice, avendo costanza di cercare e affinando così anche il proprio gusto visivo, requisito fondamentale per questo lavoro. E’ sicuramente più semplice oggi rispetto a quando ho cominciato io, molti anni fa.
C’è un lavoro a cui sei legato in maniera particolare?
Sicuramente il mio primo film, Nuovomondo di Emanuele Crialese, che mi ha anche fatto vincere un David di Donatello. Venivo da anni di assistentato e sono stato molto fortunato perché ho incontrato il regista per caso, per strada, e lui mi ha dato la grande chance di firmare un film così grande e importante. E’ stata un’esperienza intensa di lavoro, creativamente molto bella. Per fortuna, però, la maturità del lavoro non mi ha mai fatto perdere l’entusiasmo per tutti i progetti che faccio e questo mi fa sempre approcciare un nuovo lavoro come quello potenzialmente migliore. Ho appena finito, ad esempio, di lavorare con Carlo Hintermann per un fantasy, dal titolo The Book of Vision, che mi ha appassionato e nel quale credo di aver fatto un lavoro interessante sui costumi.
Nel giro di poco più di dieci anni hai lavorato con Crialese, Salemme…fino a Brizzi: uno spettro molto ampio. Che idea ti sei fatto del momento attuale del cinema italiano?
Credo che il cinema italiano stia attraversando un momento molto felice. Dopo una crisi profonda durata più o meno fino al 2012, ci sono moltissimi giovani registi di talento al loro primo o secondo film, registi che lavorano in ambito internazionale come Garrone, Sorrentino, Moretti e molti altri. Questo denota un ottimo stato di salute e c’è di nuovo la possibilità per i giovani di avvicinarsi al cinema. Ci sono molte produzioni interessanti, è rinato anche il cinema di genere. Ho lavorato in molte tipologie di cinema, ho fatto da quello d’autore a quello in costume, alla commedia, ai cinepanettoni: di tutto. Mi sento molto versatile, perché il lavoro di costumista è, appunto, in primis lavoro. Adesso vedo la possibilità di potersi esprimere in diverse forme, in diversi modi.
Per quanto riguarda le produzioni più “estreme”, come gli horror, i postapocalittici, i fantasy, la produzione straniera fa grandi numeri mentre quella italiana, quando va bene, finisce per essere di nicchia. Secondo te perchè?
Il cinema americano o filoamericano, in lingua inglese, ha dei mezzi che quello italiano non può avere. Intendo mezzi produttivi: un film postapocalittico americano costa più di 25 milioni di dollari e questo fa sì che le produzioni italiane partano già svantaggiate, perché in Italia un budget da 10-12 milioni è già considerato alto. A questo grande svantaggio sul budget si somma il fatto che quello è un tipo di cinema che non siamo abituati a fare, almeno in maniera così frequente come gli americani. Quando hai il danaro puoi permetterti tutti i professionisti che vuoi, per cui se hai un bel concept di fondo puoi realizzarlo nel migliore dei modi. Tuttavia, non è detto che un film che abbia a disposizione molti soldi sia necessariamente un bel film e gli italiani sanno supplire alle mancanze monetarie con idee originali. Il cinema, in Italia, non è industria e questa è la principale differenza con il cinema americano. Del resto l’audience cui si rivolge Hollywood è di centinaia di milioni, talvolta miliardi di spettatori, mentre il target del cinema italiano è, al massimo di 50-60 milioni. Con il cambiamento epocale delle serie tv, però, anche tutto il nostro settore sta cambiando completamente: con l’avvento delle grandi produzioni di Amazon e Netflix il nostro lavoro italiano si sta aprendo ad un nuovo mercato globale e abbiamo la possibilità ad esempio di esprimerci in serie tv di genere. Sarà quello il futuro e starà a noi farci valere a livello mondiale creando una piccola industria.
Le serie tv stanno aiutando anche a lanciare molti nuovi interpreti. Vedi qualche attore non ancora sbocciato ma che ha le potenzialità per poter diventare un “grande nome”?
Ci sono tantissimi giovani attori che hanno grandi possibilità. Uno con cui sto lavorando proprio ora è Vincenzo Crea, ma ce ne sono moltissimi altri. Ci sono molte occasioni, anche se non è semplice per gli attori: il percorso artistico di un giovane attore, come quello di un costumista, è complesso, non sempre essere bravo o bello ti dà delle possibilità, ci sono piuttosto tutta una serie di fattori che concorrono al successo, a renderti noto. Molte volte è semplicemente una questione di fortuna, che nel nostro lavoro ha una grande valenza. Essere nel posto giusto al momento giusto è fondamentale. Poi ti viene data una possibilità, te lo dice uno che ha incontrato un regista in un bar dall’altra parte del mondo, in Brasile, poi sta a te sapertela giocare al meglio e lì comincia un’altra storia.
Chiudiamo con una domanda doppia: cosa hai in cottura e soprattutto come trovi ogni volta una nuova motivazione?
Ho due film “in cottura”: ne sto girando uno svedese diretto da Ronnie Sandahl su una storia realmente avvenuta nel mondo del calcio qualche decennio fa e che si intitolerà Tigers. E’ la storia di un calciatore dell’Inter che ha tentato il suicidio dopo essere stato bullizzato. In questo momento sto inoltre preparando il film di Elisa Fuksas, la figlia del grande architetto, ed è un lavoro che si sta rivelando molto interessante. Subito dopo farò una cosa bellissima: un adattamento contemporaneo de Gli Indifferenti di Moravia, con un cast meraviglioso di attori, da Valeria Bruni Tedeschi a Edoardo Pesce, con Vincenzo Crea e Giovanna Mezzogiorno, un progetto cinematografico assai interessante, per la regia di Leonardo Guerra Seragnoli.
Dove trovo le motivazioni? La fortuna della mia vita è che ce le ho sempre, fin da bambino, non le ho mai perdute.