IL JUKEBOX DEL TEMPO PERSO – Correva l’anno, il mese, il giorno… 6 aprile 1983
Correva l’anno, il mese, il giorno… 6 aprile 1983
È il 6 aprile 1983.
A logica gli anni Ottanta sarebbero iniziati da tre anni abbondanti ma in realtà, se per anni Ottanta intendiamo quell’insieme di icone che caratterizzarono – e caratterizzano tuttora – quel decennio (e noi sì, intendiamo proprio quello), prendono realmente avvio solo in questo aprile targato 1983. Ovvero quando Bettino Craxi, certo di essere l’ago della bilancia dell’intero asse governativo e di poter concretamente realizzare un qualcosa di impensabile solo fino a pochi anni prima (un socialista Presidente del Consiglio), si sfila dalla maggioranza sfiduciando il governo Fanfani e portando il paese a elezioni anticipate che si terranno in giugno.
Non solo l’imminente craxismo, che del decennio sarà il gigantesco contenitore, ma tanti altri piccoli e grandi elementi – contenuti fondamentali – ne sottolineano l’avvento. Tipo il successo clamoroso di “Pronto, Raffaella?”, trasmissione della Carrà diventata leggendaria per il bigoncio di fagioli che troneggiava al centro dello studio, e di cui gli spettatori, via telefono, dovevano indovinarne il numero.Archetipo di un certo tipo di televisione – i milioni regalati non per specifiche abilità ma per puro colpo di fortuna, le orde di casalinghe e impiegati attaccati al telefono nella speranza febbrile di prendere la linea – che di lì a poco avrebbe spopolato.
Non a caso è il primo anno in cui i numeri di una televisione privata, la primordiale Canale 5 del Cavaliere, mettono in seria difficoltà la tv di Stato. Il tutto grazie all’esclusiva su due serie americane che avrebbero cambiato per sempre il concetto di fiction, ovvero Dallas e Dinasty, e soprattutto grazie all’esplosione di tette e di culi in prima serata nel leggendario “Drive In” firmato Antonio Ricci.
È la guerra atomica del disimpegno, che seppellirà nello spazio di pochi mesi ogni barlume di approfondimento marchiando a fuoco un’epoca intera. Da cui non siamo ancora usciti, tra l’altro.
Il vergognoso arresto di Enzo Tortora, lo scandalo del Banco Ambrosiano, la fuga all’estero di Licio Gelli, ferite gigantesche su cui si tende a soprassedere, dimenticate a suon di lustrini, giarrettiere, scollature, battutacce e luci stroboscopiche.
La musica è lì a raccontarlo in maniera a dir poco esemplare e perfetta, questo passaggio epocale. I singoli presenti nella Top Ten di quel 6 aprile infatti, sono così coincidenti con quanto appena raccontato da poter fare da esergo ai capitoli di un saggio sociologico sull’argomento.
La televisione, si diceva. Quella privata, in particolare. E allora ecco al decimo posto fare capolino Amico è di Dario Baldan Bembo, cantata con Caterina Caselli (e con la partecipazione, inizialmente non accreditata perché legata al quiz di un concorso a premi, di Ornella Vanoni, Giuni Russo, Pupo e Gigliola Cinquetti) e scritta, a quanto si racconta, su suggerimento di Mike Bongiorno, allora in cerca di una grande sigla di chiusura del suo “Superflash”, programma del giovedì sera di Canale 5, cui il grande presentatore si era appena accasato (https://www.youtube.com/watch?v=WO5S1ULM4UY).
Tra i tormentoni dell’anno (e non solo), destinata a rimanere in classifica molto a lungo e nelle posizioni di testa, basterebbe da sola a raccontare il clima di quel 1983. Terribile, eppure irresistibile, è anni Ottanta allo stato puro.
La presenza televisiva si fa ancora più spudorata in settima posizione, dove troviamo il buon Corrado impelagato con quella Carletto che fece impazzire i bambini e ancora oggi ce la sorbiamo alle baby dance estive e alle feste di carnevale della Pro Loco (https://www.youtube.com/watch?v=AglR7d_z_jE).
E pur tuttavia raffinatissima, se paragonata con quel che troviamo al secondo (sic!!!) posto: la terrificante Chi chi chi co co co di Pippo Franco, presentata (per fortuna fuori concorso) a Sanremo (https://www.youtube.com/watch?v=dwp1IRP-qOU). Più o meno da denuncia il video, che sembra innocente quando in realtà è un raro insieme di beceraggine (il corpo di ballo e canto “le fanciulline” fa venire i brividi, e non di emozione): tremendamente in linea con ciò che stava diventando la televisione.
Le altre piazze della Top Ten sono occupate dai brani più fortunati della kermesse sanremese, che proprio da quell’anno (non certo per caso) era tornata a imporsi come evento televisivo per eccellenza, con la conseguenza che anche questi brani non nati per la televisione, sono in misura affatto secondaria televisivi anch’essi.
Al quarto posto troviamo la canzone vincitrice, Sarà quel che sarà dell’emergente Tiziana Rivale (https://www.youtube.com/watch?v=RX6-yDC3Fqg). Ma è la più clamorosa vittoria di Pirro della storia del Festival. Non tanto perché la sua pur brava interprete sarebbe stata destinata a sparire, assieme al suo brano, nello spazio di un niente (destino condiviso nei decenni con tanti altri vincitori), ma perché immediatamente sconfessata e non riconosciuta dalla massa (e dalla stampa generalista). Per la cronaca: quell’anno a votare i concorrenti fu per l’ultima volta (sarebbe poi tornata nel 1990) una giuria demoscopica, accuratamente selezionata dalla direzione artistica, ma in via del tutto sperimentale, e non valido per la gara, si tentò la via del voto popolare, abbinando la preferenza alle schede del Totip, comodamente acquistabili da chiunque.
La classifica ufficiale risultò del tutto stravolta, con un vero e proprio plebiscito popolare a favore di Toto Cutugno, che quell’anno presentava niente di meno che L’italiano. Nonostante il voto popolare non avesse alcun valore ufficiale, da subito L’italiano fu riconosciuto come l’unico e solo trionfatore del Festival. Dall’anno successivo, il voto tramite scheda Totip sarebbe diventato quello ufficiale, mentre per L’italiano, che in questa Top Ten troviamo al terzo posto, iniziò un clamoroso successo internazionale che dura tuttora, facendone, insieme a Nel blu dipinto di blu, la hit italiana più celebre all’estero (https://www.youtube.com/watch?v=TYtdYslLY9I). Semplice e tamarra, immediata e imbarazzante, populista e commovente, che ci piaccia o no immortale. Che, giudizi di merito e opinioni personali a parte, non poteva che vedere la luce in quel frangente storico.
Al primo posto troviamo la bellissima Vacanze romane dei Matia Bazar, anch’essa al Festival e fresca del (sacrosanto) Premio della Critica. Un brano di un altro pianeta, se paragonato con quanto visto finora, ma anch’esso, con quel suo gusto vintage e con quella nostalgica e innocua celebrazione di un passato oleografico e mitologico, assolutamente in linea con i tempi.
Tutto qui? Non proprio. Perché se i Matia Bazar cantavano il rimpianto di una dolce vita mai vissuto, un giovanissimo ragazzo di Zocca, ancora lontano dal riempire gli stadi e dall’essere incoronato re indiscusso del rock tricolore, ma già suo malgrado scandaloso con la noncuranza e la spontaneità dei predestinati, urlava il bisogno disperato di una vita spericolata. Una vita “di quelle che non si sa mai”, in cui annullarsi e ritrovare, in quell’oblio caustico e al tempo stesso smanioso d’amore e calore, un briciolo di autenticità e di noi stessi, individui maledetti senza più punti di riferimento e senza più niente in cui credere.
Il ragazzo di Zocca era Vasco Rossi. E il brano Vita spericolata. All’ottavo posto. Che l’abbiamo così tanto sottopelle che quasi abbiamo dimenticato cosa dice. Eppure, c’è dentro tutto questo, la tragedia di un mondo in rovina e ubriaco di superficialità. La tragedia del bisogno di oblio e di abbandono. E un sogno di riscatto da coltivare nelle sedie sghembe di un bar di provincia…
E poi ci troveremo come le star
A bere del whisky al Roxy Bar…