IL JUKEBOX DEL TEMPO PERSO – Correva l’anno, il mese, il giorno… 30 marzo 1970
Correva l’anno, il mese, il giorno… 30 marzo 1970
È il 30 marzo 1970.
L’Italia conta 53 milioni e 745 mila abitanti, un incremento rispetto a vent’anni prima di oltre 6 milioni e mezzo. Lo stipendio medio di un operaio è di 120mila lire al mese, un biglietto del tram costa 70 lire, un litro di latte 150, un chilo di pasta 280, un litro di benzina 160. Sulle strade ci sono 11 milioni di automobili, ben 10 milioni in più rispetto a dieci anni prima, all’università sono iscritti 617mila studenti contro i 19mila del 1950.
Cifre entusiaste che raccontano, a qualche anno di distanza, gli effetti del boom economico. Ma che non raccontano affatto la realtà materiale di quel primo scorcio di 1970, vale a dire un paese dove gli effetti miracolosi dell’industrializzazione sono già svaniti da tempo, dove la disoccupazione è tornata a salire e dove il debito pubblico ha appena avviato una crescita inquietante e inarrestabile che, sul lungo termine, produrrà effetti a dir poco devastanti. Il tutto mentre entrano in vigore le Regioni (a giugno ci saranno le prime elezioni regionali della storia) nel bel mezzo di una crisi di governo appena risolta (caduto il governo guidato da Mariano Rumor a febbraio, quel 30 marzo ha appena ottenuto la fiducia il nuovo esecutivo, sempre con Rumor presidente del consiglio).
Ma soprattutto, non raccontano di un paese che appena una manciata prima ha vissuto la definitiva perdita della propria innocenza con la spaventosa tragedia di piazza Fontana. Un evento inaudito che ha scioccato una nazione intera mutando di colpo clima, colori, umori, aspettative.
Per tutti, i colpevoli sono gli anarchici, la più grande opera di depistaggio della storia della repubblica ancora funziona. Poche le voci che si levano, inascoltate, in nome della verità. La pista anarchica fa sì che la responsabilità venga fatta ricadere, indirettamente, sul movimento, così che l’aria di quel marzo 1970 si rivela pesantissima, segnata da repressioni e divieti.
Lo spazio democratico di colpo si restringe. È la strategia della tensione, cui seguiranno altre bombe, altre stragi, altri morti innocenti. E il terreno ideale per il fiorire dei terrorismi e degli anni di piombo.
La musica è il più potente degli oppiacei in quel momento in circolazione. Grazie anche a un trionfale Festival di Sanremo concluso da poco (è praticamente l’ultima edizione in pompa magna prima di una crisi assoluta che, nel corso degli anni Settanta, porterà la kermesse a un passo dalla chiusura), le canzoni, almeno quelle che oggi definiremmo “mainstream”, che contano su fette di pubblico gigantesche, continuano a descrivere un paese pacificato e felice dove ogni cosa trabocca d’amore, dove le pene sentimentali sono, se non gli unici, senz’altro i più impellenti dei problemi.
Proprio da brani sanremesi è composta la maggior parte della Top Ten del 30 marzo. In prima posizione c’è la cosiddetta vincitrice morale del Festival, la splendida La prima cosa bella nella versione intensa e misurata di Nicola Di Bari (https://www.youtube.com/watch?v=OpA3kWnNjng). Una melodia dolce e malinconica, praticamente perfetta per rimpiangere un passato, individuale o collettivo che sia, che mai più tornerà.
Al secondo posto della Top Ten c’è invece la vincitrice vera del Festival, che la realtà non la scantona, ma addirittura si permette di irriderla. È Chi non lavora non fa l’amore di Adriano Celentano e Claudia Mori. Provocatoria, rarissimo esempio di satira al rovescio, per molti inopportuna, divisiva ma al solito amatissima come (quasi) tutti i singoli del molleggiato, polemizza sbeffeggiando contestazioni, scioperi e manifestazioni di piazza. Nel 1970, praticamente una bestemmia. Ma per un’altra Italia, che poi si scoprirà essere la maggioranza, un inno gustosissimo destinato a restare.
Sempre dal Festival arrivano due evergreen presenti in classifica. La prima la troviamo al quarto posto, ed è la splendida Eternità, nella versione dei Camaleonti (https://www.youtube.com/watch?v=2AMSfzejnlU), più commerciale (e meno viscerale) di quella (senza dubbio migliore) di Ornella Vanoni. La seconda, che occupa la sesta piazza, è un altro ultra classico: La spada nel cuore (https://www.youtube.com/watch?v=L4O8I5F-YyA).
In entrambi i casi, come con La prima cosa bella, sempre e soltanto l’amore. E, al di là di ogni valutazione, al di là della bellezza oggettiva di certe perle immortali, che si parli d’amore o che l’amore si inviti a farlo evitando gli scioperi, il paese reale nelle canzoni di successo, in quel marzo 1970, non esiste.
Tutto qui?
Più o meno. Forse meno che più. Perché in nona posizione c’è un brano che è qualcosa di più di una grande canzone. Uno di quei capolavori che fanno da colonna sonora non a un’epoca, perché le epoche e le generazioni le oltrepassano, e quindi finiscono per battere il tempo al dna culturale di intere civiltà.
Si tratta della sublime Let It Be dei Beatles (https://www.youtube.com/watch?v=QDYfEBY9NM4). Che quel 30 marzo 1970, quando disco omonimo e singolo sono appena usciti, già non esistono più, già si sono sciolti da oltre un anno e mezzo. Ma il mondo questo non lo sa, come non sa che la bomba di Piazza Fontana e altri avvenimenti fuori d’Italia (il drammatico concerto di Altamont, la strage di Cielo Drive…) faranno calare il sipario su quell’epoca che nessuno ha rappresentato meglio dei Beatles.
E i Fab Four, che non esistono più proprio come gli anni Settanta, ci salutano un attimo prima dei titoli di coda, con un brano in cui si sente tutto il peso della crisi che sta piombando addosso al mondo.
La crisi per la fine di un gruppo leggendario e dell’epoca che quella leggenda ha saputo incarnare.
Lascia che sia, lascia correre.
Lascia che la vita faccia il suo corso.
Al nostro bisogno di vederci passare il tempo e la storia davanti, che a volte è davvero un piacere vederli passare.
Al nostro bisogno di continuare a vivere e a respirare, anche quando tutto è in frantumi. E non sembra voler danzare più.
When I find myself in times of trouble
Mother Mary comes to me
Speaking words of wisdom, let it be.
And in my hour of darkness
She is standing right in front of me
Speaking words of wisdom, let it be…